Deus est machina
La prima cosa che davvero cambia improvvisamente è che tutto perde forma, verso. Mi sveglio due ore prima del seminario nella speranza di riuscire finalmente ad assimilare il materiale assegnato e quando mi alzo a sedere sul bordo del letto non so se ho passato le ore notturne con la testa dal lato giusto. Dormo su un materasso rettangolare, appoggiato su e circondato da rettangoli di finto legno grigio. Non credo di aver mai letto da nessuna parte che i rettangoli abbiano un verso, un inizio o una fine. Arrivatǝ a tale conclusione, fallisco tre volte nell’aprire il mio portatile—anch’esso rettangolare—perché non capisco, o forse non mi ricordo quale sia il verso giusto dal quale alzare lo schermo.
Spreco ben sei minuti prima di finalmente cliccare sui file per il seminario. Li vedo chiaramente per un attimo solo, poi metà del mio schermo si oscura. Il nero delle lettere scende verso il basso il linee regolari finché non si accumula in un’unica macchia di pixel. Sono ormai passati già dieci minuti. Riavvio il computer sbuffando, ma niente: la parte inferiore dello schermo continua ad annerirsi. Lo lascio sul letto e vado a lavare denti e faccia; se non riesco a rileggere il materiale per il seminario almeno posso usare il tempo per prepararmi per le ore giornaliere. E poi non fa niente: ho già letto tutto. Tutto fatto. Solo che non ho capito bene. Ora che ci penso non mi viene in mente un unico pensiero da offrire allǝ professorǝ, non mi ricordo di un solo appunto preso durante la lettura. Farò la figura dellǝ stupidǝ; o per lo meno non avrò nulla con cui dimostrare il contrario.
Premo le mani bagnate sul viso e mi immagino di urlare a tutta gola mentre emetto un mugolio per non svegliare la persona nella stanza accanto, visto che sono ancora ufficialmente le ore notturne. Poi lo sguardo mi cade nel lavandino e vedo grosse gocce nere. Mi guardo le mani: sporche di nero anch’esse. Devo essermi in qualche modo macchiata tutto il viso, ma quando mi guardo allo specchio trovo il colore solo sulle labbra e sgocciolante lungo il mento. Mi sciacquo di nuovo, poi sfrego la mia pelle fino a farla dolere; la sostanza che ho in bocca è densa, vischiosa come inchiostro. Ho la lingua completamente nera; mi lavo i denti con brutalità e poi gorgoglio a lungo. Mi asciugo la bocca. Non ricordo cosa ho mangiato per cena, ma qualunque cosa sia stata devo ricordarmi che macchia.
Torno sul mio letto al mio computer e apro nuovamente il materiale per il seminario. Osservo le parole smembrarsi e le singole lettere colare verso il basso, fino ad oscurare metà del mio schermo. Ricarico la pagina e assisto allo stesso processo un’altra volta. Alla fine rimango ad osservare le parole ammassate, a non capire ancora, a sentirmi stupidǝ. Poi improvvisamente mi devo alzare perché ho il mento umido. Lascio il portatile nel letto e torno in bagno velocemente. Denso inchiostro nero mi cola dalle labbra e non cos’altro fare se non cercare ancora di lavarlo via. La pelle mi rimane comunque macchiate e anche le dita. Tra quindici minuti devo prendere l’express, per fortuna la mascherina anti-smog mi coprirà la bocca e una volta all’università dirò di aver preso qualche virus.
Mi vesto, infilo il portatile in una borsa e scendo nel cortile interno dal quale, in alto, si può vedere il grigio rettangolo di cielo che ora sta diventando leggermente più chiaro, annunciando le ore giornaliere. L’express arriva subito e salgo ordinatamente in fila con le altre quarantanove persone per cui c’è spazio. Mi siedo e prendo la colazione dallo scomparto apposito sul retro del sedile davanti a me. Oggi c’è succo di mela e il porridge è ai mirtilli, ma non mi ricordo che gusto avesse ieri. La colazione passa sempre così velocemente in quei sei minuti che l’express ci mette dallo studentato all’università. È molto conveniente però: tutto è in forma liquida perché ci si mette molto meno a bere che a masticare. È un attimo.
L’express riemerge sotto al grigio chiaro del cielo ottagonale del campus. La strada più veloce per arrivare all’edificio dove si terrà il seminario è passando fra il dipartimento di odontoiatria e quello di scienze del mantenimento della terra, poi si gira a destra e si continua sempre dritto. Ho misurato: ci si mette meno di quattro minuti e mezzo. Entro insieme ad altri ventiquattro studenti nel grande ascensore centrale e mentre saliamo sale anche l’angoscia. Non ho proprio nulla da offrire allǝ professorǝ, sarò assolutamente inutile per un’intera ora. Che spreco.
Sono unǝ dellɜ primɜ ad entrare nella stanza e vorrei cogliere il momento per spiegare allǝ professorǝ che terrò la mascherina per via di un virus, ma quando provo a parlare non riesco a districare delle parole dall’inchiostro che ho in bocca. Gorgoglio, tossisco e mi limito ad indicare la maschera; lǝ professorǝ mi capisce però e annuisce. Mi siedo e apro il materiale assegnato. Osservo la macchia nera raccogliersi sul mio schermo e aspetto ansiosa che mi venga finalmente spiegato cosa voglia dire quello che vedo, quello che ho letto. Perché l’ho letto mi rammento per contrastare i miei sensi di colpa.
Poi la stanza si riempie e lǝ professorǝ apre la discussione. Osservo con attenzione il nero sul mio computer e ascolto le persone che parlano intorno a me aspettando la chiave che risolvererà il codice. Non riconosco una singola parola, né sullo schermo, né dai commenti di chi mi circonda. Alzo lo sguardo e vedo lǝ professorǝ dire qualcosa, muovere la bocca, eppure tutto ciò che ne esce è denso inchiostro nero e gorgoglii a cui studentɜ rispondono gorgogliando a loro volta di tanto in tanto. L’inchiostro cola dalla bocca sul portatile e alla fine del seminario, quando apro il documento con i punti chiavi di cui abbiamo parlato che ci ha inviato lǝ professorǝ, sul mio schermo intravvedo per un attimo “Seminario 3, IV mese 2075”, ma poi ci sono così tante parole che si riempie completamente di nero, come se avesse un difetto tecnico. Ancora non capisco nulla.
Torno allo studentato con l’express della terza ora giornaliera. Riemergo nel rettangolo di cielo del cortile interno e torno alla conclusione avuta quattro ore prima nel letto: che i rettangoli non hanno un verso. Non so in che direzione sto andando, quale dei quattro ascensori sia quella giusta per arrivare all’unità abitativa nella quale si trova la mia camera. Vado alla reception e spingo il pulsante “aiuto” sullo schermo per attivare la chat di assistenza.
“Ciao”, si attiva la voce monotona dell’IA, “come posso aiutarti?”
“Non ricordo dove si trova la mia stanza.”
“Che stanza hai?”
Ci metto un po’ a rispondere e temo che la chat si chiuda. “Ehm… non so. Una stanza come quella di tuttɜ lɜ altrɜ cred—”
“Ci sono: Stanza Standard con: letto, armadio, bagno, Stanza Standard Plus con: letto, armadio, scrivania, bagno, Stanza Deluxe con: letto, armadio, scrivania, poltrona, bagno, Stanza Deluxe Plus con: letto, armadio, scrivania, poltrona, TV, bagno, Studio Maxi, monolocale, con: letto, armadio, scrivania, poltrona, TV, bagno, piano cucina, frigo. Quale è la tua stanza?”
“Ehh Standard credo.”
“Bene. Procedi a Stanza Standard su: piano 1 o 2: blocco A, B, C o D.”
“Sì, ma quale è la mia stanza?”
“Tutte le stanze su: piano 1 o 2: blocco A, B, C o D sono Stanza Standard. Tutte le Stanza Standard sono uguali.”
“Ok, certo… Quindi dove vado?”
“Procedi a Stanza Standard su: piano 1 o 2: blocco A, B, C o D.”
Crollo sul letto rettangolare di una Stanza Standard senza sapere se la mia testa sia nel verso giusto e mi addormento molto prima delle ore notturne.
Mi risveglio di soprassalto all’infernale suono della sveglia sul mio cellulare. Osservo freneticamente i muri spogli della stanza in cui mi trovo, non ho idea di dove sia finita. Poi mi arriva una notifica sul cellulare. “Reminder: ispezione stanza 19/01/2025, ore 09:00”. Sono nella mia stanza spoglia dalle cui pareti ho tolto tutti i poster in vista dell’ispezione del nostro appartamento. Trovo il mio computer avvolto fra le coperte dove è rimasto da ieri notte quando mi sono addormentata mentre cercavo di finire di leggere il materiale per il seminario di oggi.
“Buongiorno” mi dico ad alta voce e sono contenta di non sputare ancora inchiostro.
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