Quiete
Torniamo dalla città la sera e quando scendiamo dal treno diluvia. Non abbiamo ombrelli con noi e quindi aspettiamo per un po’ sotto la tettoia della stazione ad ascoltare la pioggia. Il professore chiude gli occhi, fronte corrugata, come se stesse cercando di distinguere il ticchettio di ogni singola goccia che tocca a terra.
“Che rumore” commenta dopo un po’, “Non me lo ricordavo così.”
Quando l’acqua cessa ci avviamo silenziosamente verso casa, ma non c’è affatto silenzio. Ci sono alcune macchine che ci passano a fianco, uccelli che volano nella fresca umidità della sera e raspano in cerca di vermi fra i cespugli, colpi di scuroni che sbattono nell’essere riaperti dopo il temporale e le suole delle nostre scarpe che stridono sul marciapiede bagnato.
Nel cortile interno, fra il minuscolo appartamento a schiera in cui abito e la casa del professor Testa, ci guardiamo per un po’ in faccia stupiti. In questo giorno incredibile il professore mi stringe la mano e ci mette un attimo a ricordarsi di poter dire “Grazie, buonasera.”
“Grazie a lei, davvero” rispondo io, poi mi giro verso il mio alloggio e guardando il colore marrone del portone sgretolarsi dal legno penso che dovrei ridipingerlo e che mi piacerebbe cambiarne il colore; forse un bel turchese come quello dei cieli estivi che ricordo dalla mia infanzia. Dovrei anche oliare gli infissi della mia unica grande finestra che dà sul cortile e aggiungerci davanti un divano sul quale sedersi la sera a guardare il sole trasformare i tetti in oro e bronzo. Il mio cuore mi scuote un po’ con battiti potenti e veloci, eppure c’è quiete tutt’intorno e dentro di me. Per la prima volta dopo essere arrivata penso: casa mia.
Giro le chiavi nella toppa ed entro con foga. Allungo la mano verso l’interruttore della luce e non appena lo tocco mi ricordo che non funziona. Non ha mai funzionato da quando abito qui, pur non essendo rotto. Sospiro e sto per sfilare il telefono dalla borsa per utilizzarlo come torcia, poi però mi fermo e torno nel cortile interno di corsa.
“Professor Testa!” chiamo; anche lui sta aprendo la porta della sua casa.
“Mi scusi, ho provato a dirglielo un paio di volte… il centralino elettrico è in casa sua e non ho ancora avuto occasione di accenderlo da quando sono arrivata.”
Il professore apre la bocca e per un attimo temo che gli unici suoni che usciranno saranno i borbottii rauchi e arrabbiati che egli mi ha sempre rivolto fino ad ora. Ora è però solo sorpreso.
“Non… non me ne sono accorto. Non avevo capito, mi dispiace.”
“Davvero non sentiva proprio niente?” chiedo. Lui scuote il capo.
“Niente” dice, con occhi sbarrati, increduli. Si porta forse inconsciamente una mano all’orecchio destro, vicino al quale la pelle è scalfita da tante piccole cicatrici.
“Ma prego, entra pure ad accendere il tuo centralino.”
Annuisco e lui mi fa strada nella sua casa. È grande, piena e vuota allo stesso tempo. Ha tutto ciò che il mio appartamento non ha: soffitti alti, grandi finestre che inghiottiscono luce dal cielo e la liberano nelle stanze, libri, libri, libri dappertutto, articoli di giornale incorniciati, foto e oggetti che non guardo troppo a lungo perché mi ricordano troppo casa; non questa, l’altra.
Faccio scattare la levetta del centralino ed è come se avessi acceso il rullo della mia nuova esistenza qui. Il professore attacca un pezzo di scotch di carta sopra alla mia levetta e mi porge un pennarello: “Per ricordarci qual è il tuo.” Così lascio il mio primo marchio qui e scrivo خليلة.. “Khalila” pronuncio ad alta voce come una bambina che scrive il suo nome sull’armadietto il primo giorno di scuola.
Tornando all’uscita passiamo il salotto; dalla porta semiaperta intravedo un grande tappeto dai motivi vivacemente colorati che copre gran parte del pavimento. Mi blocco, incollata a terra dalla nostalgia, perché quelle precise sfumature hanno così tanto colore di casa che mi bruciano gli occhi. Quando distolgo lo sguardo non so se trovo la mia malinconia rispecchiata negli occhi del professor Testa o se la tristezza che lo ha invaso è di altro tipo. Infine però fa un cenno verso il salotto e dice: “Beviamo un the?”
Mi siedo sulla poltrona che il professore mi indica e mentre lui va in cucina a mettere su l’acqua osservo affascinata gli infiniti intrecci dei sottilissimi fili di cotone, lana e seta del tappeto. Non ne vendono di così belli qua.
“L’ho portato qui l’ultima volta che sono stato là” racconta lui, fermo sulla soglia della stanza con due tazze fumanti in mano; tremano un po’ e così mi affretto a prenderne una.
Appoggio le labbra sul bordo della tazza e chiudo per un attimo gli occhi. Il profumo di menta che emana il the prende possesso dell’aria e per un po’ stiamo in silenzio godendoci la nostra bevanda calda ed osservando gli uccelli volare bassi prima di sparire fra le avanzanti ombre della sera.
“Lei è nato lì?” chiedo quando la mia tazza è vuota e il professore scuote la testa.
“No, mia madre si era trasferita qua con mio padre già da un paio di anni” spiega e il suo sguardo cade nuovamente sul tappeto. Corruga la fronte.
“Ma mi sono sempre sentito a casa lì, anche prima di esserci mai stato. Mia madre mi raccontava tutti i giorni della sua città natale e quando finalmente la visitai per la prima volta conoscevo già a memoria il nome di tutte le vie e piazze più importanti, come se fossi sempre stato lì.”
“Non ha mai pensato di trasferirsi?”
“Certo,” risponde lui subito, “ma intanto qui tutto seguiva il proprio corso e ottenni la cattedra all’università.”
“Alla fine però è andato e ha comprato questo tappeto” osservo con un sorriso, ma esso mi cade velocemente dalle labbra sui motivi colorati ai nostri piedi, dove anche lo sguardo del professore giace: occhi così pieni di ricordi da non permettere alla luce di entrare.
“Alla fine sono andato” ripete, ma le parole non sono rivolte a me.
“Professore?” lo richiamo.
Il suo capo si rialza di scatto, stupito della mia presenza: “Sì?”
“Alla fine, cosa è successo? La volta in cui ha comprato il tappeto intendo” chiedo e stringo forte la tazza vuota nelle mie mani, alzo i piedi sul bordo della poltrona come una bambina pronta ad ascoltare una fiaba spaventosa. So che il professor Testa non mi racconterà una fiaba. La storia che lui ha vissuto la posso già immaginare a grandi linee; io come lui ne sono stata uno dei tanti personaggi minori.
“Avevo comprato il tappeto a gennaio, praticamente appena ero atterrato, e non vedevo l’ora di metterlo qui in salotto. Quando poi sono andato via per l’ultima volta non volevo—non potevo più sentire di tutti quegli… Di tutto. Il venditore però non voleva riprendersi il suo tappeto e quindi l’ho dovuto portare qui comunque e l’ho odiato un po’ ogni giorno.”
Osservo i ricchi colori dei fili intrecciati. “A me piace perché mi ricorda casa, ma il mio ricordo è diverso dal suo” capisco. Lui annuisce, terrificato, e io non oso chiedere.
Il professore si alza all’improvviso e si ferma davanti ai cassetti della libreria. Si china e dall’ultimo estrae un taccuino che sembra pesargli come un masso quando si rialza. Lo apre ad una pagina precisa, ma non si sofferma a leggere e invece me lo porge. Azzardo uno sguardo sulla carta e riconosco immediatamente luogo e data. Alzo in fretta gli occhi: “Non me lo racconta lei?” chiedo, ma il professor Testa scuote il capo.
“No. Non sono parole fatte per essere ascoltate. Le ho scritte quando pensavo che non avrei mai più potuto ascoltare nulla e non voglio sentirle ora.”
Annuisco e abbasso nuovamente lo sguardo sulle pagine; le stringo forte per aggrapparmi a qualcosa.
15 luglio, 03:46
Non dormo. Qui ormai arriva solo la notte, ma non la quiete. C’è più buio qui in città che nel villaggio in Italia; i pali elettrici non sono più in piedi da mesi ormai. L’oscurità rende le esplosioni ancora più vivide. Ne vedo il bagliore riflesso sul muro di questa stanza anche con le tende tirate. Non sono più sicuro se le urla che sento sono reali o se sono quelle che si mescolano nella mia mente a tutte le terribili storie che ho sentito qua. Non mi danno quiete. Nella notte non so mai chi urla o perché, devo sempre aspettare il giorno prima di uscire e cercare quelle persone che hanno gridato, farmi raccontare il motivo. Se ancora possono. Temo e aspetto domani mattina.
15 luglio, 11:15
Mi sono aggregato a cinque reporter da vari paesi che hanno ottenuto un passaggio verso la periferia della città per osservare meglio questi nuovi avvenimenti.
15 luglio, 14:36
Siamo vicinissimi ai combattimenti, forse troppo, ma è troppo rischioso spostarci. C'è così tanto rumore; ho paura che mi si rompano i timpani. Stanno avanzan—
16 luglio, 23:09
Ho un gran frastuono nelle orecchie, non sento niente. Ho chiuso occhio per appena due ore nonostante i sonniferi. Il dottore ha scritto su un foglio di carta in modo che potessi leggere, che questo succede spesso a chi è troppo vicino ad un’esplosione, ma che i danni all’udito non sono permanenti e dovrei migliorare entro una settimana. Potrò poi tornare a fare il mio lavoro. Non si sentono urla qua, o se ci sono non le sento sopra al rumore nella mia testa.
25 luglio, 12:26
Il frastuono continua e continua, non mi dà pace. L’otorino ha effettuato ulteriori controlli e mi ha scritto per l’ennesima volta su un maledetto foglio di carta che con le mie orecchie è tutto a posto. Chiaramente è un incapace visto che ancora non sento niente e una settimana è ormai passata da un pezzo. Ancora non riesco a riposarmi, il frastuono continua.
È chiaro che non posso chiedere a persone di scrivere degli orrori della loro esistenza su un maledetto foglio di carta.
28 luglio, 23:18
In quanto la carta continua ad essere l’unico metodo di comunicazione a me disponibile sarà meglio che torni in quel mondo finto in cui la carta è padrona e le uniche storie che hanno valore sono quelle stampate sui libri; anche se non riesco ad immaginarmi di tornare all’università. Sempre questo frastuono, non c’è quiete.
“Khalila” richiama la mia attenzione il professore. Alzo il mio sguardo dalla parola “quiete” e le mie lacrime scendono a bagnarla.
Tre mesi prima
Passai gran parte del volo ad osservare la foto incollata sul sedile davanti al mio. Una donna in costume con uno spritz in mano era incollata su uno sfondo raffigurante spiaggia, sole e mare. Sopra c’era scritto “vacanze italiane”.
Una volta atterrati faceva freddo fuori dall’aereo e ancora di più quando scesi dal treno tre ore più tardi. Mi fermai per un po’ sul binario circondata dalle mie valigie, borse, zaini; braccia pesanti, gambe e piedi ancora di più. Cercai forse qualcosa di accogliente nei monti intorno a me, ma essi si erano nascosti dal mio sguardo in grossi mantelli di nebbia.
La signora che mi avrebbe affittato l’appartamento mi aveva mandato per email le indicazioni per arrivare dalla stazione: giusto cinque minuti a piedi. Mi fermai dopo alcuni metri con guance umide. Non mi ricordo se quelle lacrime mai caddero per davvero o se era solo l’umidità nell’aria. Dopo migliaia di chilometri alle mie spalle mi trovavo a cinquanta metri dal nuovo appartamento, inghiottita dalla fitta nebbia scesa dai monti, non in grado di vedere la strada davanti ai miei occhi. Le indicazioni erano semplici: sempre dritto. Eppure in quel momento buttai tutto a terra, spinsi lontano i miei bagagli. Volevo finalmente arrivare a casa.
La signora sorrise troppo nell’accogliermi e io troppo poco. Voleva essere gentile: scandì lentamente le parole che ancora facevo fatica a comprendere, ma esse mi sembrarono spiacevolmente rumorose nella pesante aria di nebbia.
L’appartamento era gelido quando entrammo e la proprietaria indicò una stufetta elettrica: “Si scalderà subito.” Mi aiutò poi a portare dentro tutti i bagagli e si sfregò giocosamente la fronte con il retro della mano.
“Fiuu! Girare mezzo mondo con tutto questo peso… avrai fatto una gran fatica!” scherzò.
“Sì” risposi io.
Infine, prima di uscire, la signora indicò l’interruttore della luce stringendo le labbra per poi dire: “La luce è ancora collegata al centralino elettrico nella casa del professor Testa.”
Mi indicò la grande casa dall’altra parte del condominio e schiarì la gola.
“Il professore è un tipo un po’ strano. È cresciuto qui in villaggio, poi però è andato via a lungo come inviato da qualche parte dove c’era guerra e altre robe terribili e beh… Il professor Testa ci ha perso la testa lì!” mi spiegò e finì il suo racconto con una risatina che le tinse il viso di rosso.
“Comunque, una persona non è cattiva solo perché è strana e sono sicura che per una donna giovane e simpatica come te non sarà un problema chiedergli di accendere il tuo centralino.”
Passai la mattina seguente nella penombra seduta su una sedia vicino alla stufetta elettrica. La mia unica finestra, anche se grande, è volta verso ovest, perciò la luce non entra fino al pomeriggio. Stetti lì come un seme sotto terra: schiacciata in un posto stretto, umido e buio, senza abbastanza sole da permettermi di germogliare. Poi vidi la porta della grande casa di fronte aprirsi e un uomo uscire. Faticai a mettere in movimento le pesanti membra del mio corpo e così dovetti correre fuori senza giacca e con le scarpe slacciate per intercettare in tempo il professore.
“Signor Testa!” gridai quasi, ma egli mi ignorò completamente e proseguì dritto per la sua strada. Inciampai cercando di raggiungerlo e storsi una caviglia. Quando gli fui di fronte mi ero già pentita di essermi mai alzata da quella sedia. Cercai di sorridere.
“Ciao, buongiorno! Sono arrivata ieri. Abito in quell’appartamento” dissi e lo indicai. Le sillabe delle parole avevano una forma e un suono storpiato nella mia bocca e sentii le mie guance diventare bollenti.
Insistetti: “La luce però—”
Il professore mi scagliò contro un muro di suoni rauchi insormontabile per me. Non riuscii a distinguere una singola parola. Volevo piangere, ma provai di nuovo: “Co…come? Non capisco.” Lui mi cacciò via, i suoi borbottii si fecero più rabbiosi e si avvicinò a me con passi pesanti. Tornai nel mio buco freddo e umido come un animale spaventato. Al buio mandai un messaggio alla proprietaria.
“Il professore non parla” fu l’unica frase che riuscii a scrivere.
La signora mi rispose poco dopo: “Il professor Testa è un tipo piuttosto silenzioso, ma vedrai che dovete semplicemente fare amicizia!”
Tre mesi dopo sono nuovamente alla minuscola stazione e questa volta la nebbia si è alzata tanto da rovesciarsi sul mondo sotto forma di un acquazzone. Mi chiedo se presto sarò di nuovo qui con tutti i miei bagagli a salutare i monti che hanno appena cominciato a piacermi. Ci penso solo un attimo, perché già il mio respiro si inumidisce di lacrime. Controllo per l’ennesima volta che ci siano tutti i documenti necessari nella mia cartellina. Ho paura di due cose: di perdermi—nonostante conosca a memoria l’indirizzo della questura già da settimane ormai—e che mi facciano domande a cui non saprò rispondere—nonostante sappia di avere tutti i documenti necessari. Anzi tre: ho paura che mi dicano di no. E di trovarmi di nuovo dalla parte sbagliata del mondo.
Il treno è in anticipo, in lontananza vedo la luce dei fari colare a terra insieme alle grosse gocce d’acqua e vengo travolta dal desiderio di correre. Lontano, via, via. A casa, per favore, finalmente. Mi sfugge l’inizio di un urlo sotto forma di un singhiozzo, ma rimango dove sono. Distolgo lo sguardo dal treno e guardo dritta davanti a me concentrandomi sul mio respiro.
Proprio lì c’è il professor Testa. Avanza sotto la pioggia con il capo chinato sotto un cappello e una borsa da ufficio ormai zuppa. È quasi ai binari, nel punto dove si attraversa dal primo al secondo: la stazione è troppo vecchia e piccola per un sottopassaggio.
“Signore, attenzione!” lo avverto.
Lui mi ignora come ha sempre fatto; questa volta non si degna nemmeno di rispondermi con i suoi borbottii rabbiosi. Sento il treno ormai vicino.
“Professore, il treno!” grido ancora, ma non abbastanza forte e allora corro.
“Professor Testa!” lo afferro per un braccio appena in tempo; la sua borsa sparisce fra i binari.
Improvvisamente il suo viso scatta verso di me e si copre le sue orecchie con le mani. Mi guarda ad occhi sbarrati, ma non c’è tempo, il treno ripartirà tra pochi secondi e così mi affretto a spingere il pulsante sulla porta e aiuto il professore a salire, scossa almeno quanto lui. Non mi ha mai guardato in faccia prima.
Passano alcuni lunghi attimi prima che mi riprenda dallo spavento. Fra le gocce d’acqua sul finestrino osservo le case aggrappate qua e là ai monti, le vigne spoglie e sonnolenti dopo aver dato frutti per tutto l’autunno e piango perché spero, spero davvero mi lasceranno restare qua. Cerco un fazzoletto per asciugare le lacrime, ma poi mi accorgo che anche il professore sta piangendo; viso fisso sul paesaggio che ci passa di fianco.
“Che quiete” sospira e il respiro e la sua voce paiono venire così profondamente dal suo petto da imprimersi nelle mie orecchie.
Porgo un fazzoletto anche a lui, che accetta con un sorriso.
“Si sta bene qua” annuisco, “Ci ho messo solo un po’ ad imparare a riconoscere la tranquillità di questo posto.”
Poi torno alla realtà: “Il treno” dico, “Si è quasi fatto investire.”
Il professore ci mette alcuni attimi a rispondere e poi parla lentamente: “Non arriva mai in anticipo e con la pioggia non l’ho visto arrivare.”
“Ma non ha sentito il rumore?” chiedo e i suoi occhi si fissano nei miei, neri come pozzi senza fondo.
“Sento sempre rumore. Incessante, da anni. Senza un momento di quiete.”
Poi cinge il mio polso: “Grazie. Grazie tanto.”
“Prego” rispondo, ma non capisco appieno. “Perché non mi ha mai parlato prima?”
“Con tutto questo inferno nelle orecchie non riesco a sentire niente.”
“Ora invece mi sente.”
Lui annuisce: “Ti sento. Per favore, raccontami di te.”
Stringo forte la cartellina che contiene l’intera mia storia e forse ciò che mi permetterà di continuarla. Non ho più voglia di piangere e quindi l’unica cosa che riesco a dire è: “Sto andando in questura per confermare la mia richiesta d’asilo.”
Il professore china il capo, ma poi lo rialza e annuisce.
“Posso venire con te, conoscevo bene la questura e magari ci sarà bisogno di un interprete. Vorrei aiutarti a ritrovare la quiete, come tu hai aiutato me.”
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