La marea: I

Il buio, fuori, era liscio e umido. La galleria, dentro, era affilatamente abbagliante. Il nero della notte non era stato invitato al mio ventitreesimo vernissage, dominava invece un bianco troppo candido, troppo vuoto, che rendeva tutto al suo interno troppo nitido, troppo a fuoco. Era come essere schiacciata sotto la lente di un microscopio. 

C’era uno scricchiolio nell’aria: dodici identiche cornici di lucido legno nero si stringevano intorno ai miei quadri, faticando a contenerli. Increspai le labbra al pensiero che il colore potesse improvvisamente tornare liquido, schizzare dalle tele macchiando i candidi muri. Sarebbe stato un disastro in realtà. Non per i miei quadri, ma per i critici, che erano intenti ad ispezionare ogni singola pennellata e si avvicinavano talmente ai quadri da sembrare di volerci cadere dentro; potevo percepire il loro respiro vicino alla tela quasi fosse la mia stessa pelle. Temevo potessero allungare la mano per toccare. 

Alle otto in punto la direttrice della galleria invitò tutti a prendere posto nelle sedie di fronte al mio leggio e le persone si avvicinarono come api pronte e succhiare un fiore particolarmente fragrante. Critici e giornalisti tirarono fuori taccuini, tablet e cellulari, occhi su di me, narici piene del dolce profumo di nettare. Presi un respiro e mi preparai a dare risposte soddisfacenti. 

Terminai mezz’ora dopo  stritolata, spremuta, prosciugata; lingua secca e amara. Avevo giustificato la dominanza del blu dicendo che i quadri erano stati dipinti fra agosto e novembre e che le varie tonalità del colore rappresentavano la transizione dall'acqua del mare estivo alla pioggia autunnale. Avevo raccontato che le mie pennellate verticali, piuttosto che orrizzontali, rappresentavano la visione del mondo dall'essere umano, che si differenzia da quella degli animali proprio per la verticalità della nostra prospettiva. Spiegai che i colori ad olio, con la loro fluidità,  rappresentavano movimento per me, mentre gli acrilici, asciugandosi in fretta, erano simbolo della frenesia della vita in città. Il titolo del mio racconto era annunciato a caratteri cubitali su un enorme striscione ciano sopra alla mia testa: Nedra Seaberg: Forme e Sviluppi dell’Arte Contemporanea.  

Dopo fu aperto il buffet e lo champagne e bevvi assetata il calice che la direttrice mi porse congratulandomi. Le sorrisi frettolosamente, poi cercai la familiare quiete delle mie tele, mentre gli ospiti erano impegnati in una strana danza di chiacchiere e gelosa custodia di ciò che avrebbero scritto nei loro articoli del giorno dopo. Spossata lasciai che le bollicine del vino salissero dalla gola a riempire l’arido vuoto della mia mente: per la ventitreesima volta era tutto a posto.


Una mano di marmo si posò poi sul mio braccio ed anch'io divenni improvvisamente di pietra. Le pallide dita di Pieter Vermeersch si strinsero intorno al mio polso come una gelida manetta di ferro. Mi ritrassi e posai il calice con un tonfo, il liquido traboccò rovinando le locandine sul tavolino.  

“Pieter, come posso aiutarla?” 

Lui mi mostrò trentadue denti più bianchi di ceramica.

“Cara Nedra, la domanda è come posso aiutarti io.”

Fissai il suo sorriso da pubblicità e lui si schiarì la voce.

“Hai fatto un ottimo lavoro—”

“Come al solito. Sì” dissi, completando la frase che mi rivolgeva tanto volentieri.

“Attenzione, Nedra, la fama può dare alla testa più in fretta di quel che crede.”

Sventolò il suo indice vicino al mio viso e puoi produsse una risata rumorosa che echeggiò negli spazi vuoti della galleria. Non mi mossi. Lui ritornò serio, spostò lo sguardo sulle persone presenti.

“Stai avendo successo. Si dice che come artista non si guadagna, ma ecco qui una giovane donna venuta dal nulla a provare il contrario. Dovrai vendere abbastanza bene, immagino.”

Mi spostai fra Pieter e le mie tele.

“Non mi lamento. Queste non sono ancora in vendita però” dissi. La casa di Vermeersch era una tana di drago nella quale custodiva opere d’arte come gioielli: in cassette e vetrine. Era un collezionista agghiacciante, metteva le mani su tutto ciò che poteva avere.

“Hai malinteso le mie intenzioni. Non sono qui per chiederti di vendere a me, ma per aiutarti a trovare più acquirenti.”

“La ringrazio, ma non ne ho bisogno.”

Feci un passo avanti, Vermeersch ne fece uno indietro e per un breve istante pensai che si sarebbe finalmente allontanato da me e le mie tele.

“Come ho detto: la fama dà alla testa. Una giovane artista di successo come te beneficerebbe però molto di uno sponsor. Qualcuno che si occupi al tuo posto di faccende onerose come l’organizzazione di mostre o marketing, così da permetterti di sfruttare a pieno il tuo potenziale e massimizzare la tua produzione artistica.”

Come un albero senza radici appoggiai la schiena al freddo muro fra due tele. Scossi il capo: “No, grazie.” 

Vermeersch inarcò le labbra verso l’alto mascherando a malapena uno sbuffo.

“Un po’ di immaginazione, Nedra! Non più mostre con una dozzina di quadri, ma interi musei dedicati alla tua arte! Cartoline, segnalibri, borse di stoffa, poster

Mi girava la testa, c’era brusio tutt’intorno. Ero instabile come su uno scoglio circondato da onde furiose, il vento salato e tanto potente da rendere l’aria irrespirabile. Mi staccai dalla parete in avanti, nel movimento improvviso urtai il tavolino ed il calice cadde frantumandosi con un suono deliziosamente cristallino. Avevo lavato qualunque traccia di sorriso dal viso di Pieter Vermeersch. Mi chinai ed iniziai a raccogliere i pezzi di vetro.

“Faccio da sola” sibilai, riferendomi al calice rotto, quanto alla sua ridicola proposta e finalmente mi lasciò sola. 


Rimasi a lungo dopo il vernissage. Mi piaceva respirare l’aria mentre tornava lentamente più ricca di ossigeno, quando le luci venivano abbassate e il vuoto tornava a prendere il suo posto nella galleria e la mia acconciatura si scompigliava scivolandomi lungo la nuca. Quando anche le ultime persone presenti uscirono celebrai con un altro calice di champagne. Davanti ai miei occhi le varie sfumature di blu si staccarono dalle tele e si mescolarono in disordinate onde di colore; mi feci cullare da quel mio mare andando da dipinto a dipinto. Quando giunsi all'ultimo quadro qualcuno mi si avvicinò fino a stare al mio fianco. 

L'addetta catering non si schiarì la gola; il silenzio era troppo solido per essere rotto. Fu riempito invece da una voce melodiosa.

“Sono stata pregata dalla direttrice di portare via il buffet. La galleria sta chiudendo.”

Annuii: “Finisco questo calice.”

L'addetta catering era paziente, o sfruttò il momento per osservare i quadri più da vicino. Dopo alcuni attimi chinò il capo e un risolino le sfuggì nell’aria. Finii in un sorso il resto di champagne e mi voltai verso di lei. Incontrai occhi verdi come di un gatto nascosto nell’ombra, nella penombra nel suo completo nero spariva un po’. 

“Cosa?” volli sapere. Lei indicò le mie tele con un movimento del suo capo, sorridente.

“Mi chiedevo cosa scriveranno in tutte quelle riviste domani” disse. 

“Non ti piacciono?” chiesi e il suo sguardo lasciò per un attimo i quadri per spostarsi su di me; forse nel tentativo di determinare se avessi scatenato le onde del mio mare di colori su di lei nel caso mi avesse offeso. 

“Sono bellissimi, ma non saprei cosa aggiungere.” 

I miei pensieri si erano sciolti e mescolati nella mia mente. Avevo la testa troppo pesante per voltarmi verso di lei troppo velocemente.

“Saresti una pessima critica” le feci notare, lei rise.

“O forse una critica sincera?” 

Cercò il mio sguardo: non era un’offesa. Sorrisi: “Probabilmente.” 


La notte si era nel frattempo trasformata in un fluido quadro impressionista, o forse lo era solo nella mia mente a causa dello champagne. Le luci macchiavano il buio in aloni di colore sbiadito che colavano lentamente dalla tela del cielo nelle piatte acque del fiume che scorreva come una vena dal denso sangue nero, spaccando la città in due.

Mi avvolsi stretta nel cappotto, cercando di sparire un po’, fra le ombre non volevo disturbare questo dipinto notturno. Mi avviai verso il ponte, conoscevo la strada per tornare a casa; non la più breve, ma la più sicura. Sentii il bagagliaio del furgoncino del catering sbattere e poi il rumore del motore avvicinarsi. L’addetta catering abbassò il finestrino: “Vai da sola?”

“Sì, mi farà bene una passeggiata per evitare una sbronza” le dissi e lei rise, ma strinse le labbra.

“Posso darti un passaggio” offrì. “Almeno fino al di fuori del centro.”

“In che direzione vai?” chiesi.

“Sud, verso la città vecchia.”

Annuii: “Va bene allora, grazie.”

Per un po’ lasciammo scorrere la città davanti a noi in silenzio, poi lei indicò lo stereo: “Ti dispiace?” Scossi il capo e i colori colanti e dispersi della notte furono mossi dalla melodia di un pianoforte; forse Van Gogh aveva visto il mondo così. Magari avrei dovuto comprare uno stereo per la mia soffitta. 

“Cos’è?” chiesi.

L’addetta catering non mi rispose subito. Aspettò la fine del fraseggio musicale sorridendo ad una nota precisa e poi disse: “Beethoven concerto per piano numero cinque. Mi sto esercitando a suonarlo.”

“Ti piace il pianoforte?” 

“Moltissimo” rispose lei e sorrise ancora, ricci dorati luccicanti fra le luci della strada.


Le chiesi di farmi scendere non appena la grande strada principale iniziò a spezzettarsi in strette vie della periferia.

Le tesi la mano: “Nedra, e ti ringrazio.” Lei ricambiò il gesto. Sfiorò per un attimo il mio polso con dita lunghe e calde.

“Hedda, ed è stato un piacere.” 

Lei sorrise e io mi allontanai nella notte.

Aveva piovuto nel pomeriggio, così, nelle quiete vie residenziali, camminai a passi lenti e pesanti in modo che il fango delle pozzanghere schizzasse il mio abito. Arrivai a casa con l'aspetto giusto: le gocce di acqua sporca sulla mia gonna nera colavano verso l'orlo come stelle cadenti, avevo i capelli sciolti ed annodati, la frangia spettinata. L'eleganza era un concetto estraneo al mio atelier. Mi lasciai alle spalle il bianco abbagliante splendore della galleria e tornai ai miei schizzi, macchie e pennellate di colore accidentali sui muri e pavimenti. Salii in soffitta ed osservai il bagliore di un lampione malfunzionante che filtrava dalla finestra offuscandosi per poi tornare più luminoso come il leggero moto di onde di un calmo mare notturno.

Mi affacciai e anche la rimanente frizzantezza da champagne si levò nell’aria con l’ultimo sprazzo del lampione, poi si spense. Il buio apparve più scuro ai miei occhi ancora pieni di luce. Presi un respiro ed esso uscì dalle mie labbra sotto forma di un singhiozzo. Dopo ventitré volte ancora arrivava la paura. Strinsi il legno della cornice della finestra e chiusi forte gli occhi. Vi ci trovai incisa la schiacciante, bianca luce della galleria. Inspirai e pian piano il candore si fece più tenue; nella penombra trovai uno sguardo verde, attento, perforante. E lei aveva osservato il nulla e io non avevo fatto niente per coprirle la vista. Ad occhi chiusi vidi i blu delle mie tele colare lungo le pareti, le diverse sfumature di colore mescolarsi fra le ombre e improvvisamente raggiungermi con violenza, travolgermi, schiaffeggiarmi l’aria dal petto. Annaspai in quella viscosa onda di blu, stordita. Poi finalmente aprii gli occhi e respirai grata l’aria bagnata della notte. Pensai di sentire sulle labbra il sale dell’acqua di mare, ma erano solo lacrime. 

Feci sbattere la finestra nel chiuderla e la quiete intorno a me si ruppe. Presi il telefono e mandai un messaggio alla direttrice della galleria pregandola di utilizzare un servizio catering diverso per la prossima occasione. Non avrei più visto Hedda e lei non avrebbe più visto nulla. Sarebbe stato tutto a posto. Piansi dopo.

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