La marea: Prologo

Cinque anni prima. 

Arrivai come la prima alta marea della mattina: silenziosamente mentre il sole si innalzava pigramente in cielo. Questa parte della città era lontana dai frenetici passi delle 07:30 in direzione ufficio, dal rombo dei macchinari dei cantieri, dal cemento, dai grattacieli. 

L'autista rallentò imboccando una via più stretta che era stata resa irregolare da radici di biancospini e si fermò poi all'ultima villetta a schiera sulla sinistra. “Grazie” fu la seconda e ultima parola che scambiai con lui quando finimmo di scaricare tutti i cartoni. Poi ascoltai il silenzio risucchiare il ronzio del furgoncino prima di inserire le chiavi nella toppa. La porta era vecchia e dovetti appoggiare entrambe le mani sulla vernice scrostata, prima che cedesse con uno scricchiolio. Sorrisi osservando i piccoli pezzi di colore che mi erano rimasti attaccati alle dita ed entrai nella casa che presto avrei imparato a chiamare mia

Mi tolsi scarpe e calzini e camminai dall'ingresso al piccolo studio e poi alla cucina al piano terra, godendomi la sensazione fredda delle piastrelle e il legno del parquet sotto le piante dei piedi. Tolsi a strattoni i teli che ricoprivano i pochi mobili che avevo fatto portare la settimana prima. Risi tossendo fra la polvere, sentendola depositarsi sui miei capelli.

Quando tornai fuori i cartoni avevano assorbito l'umidità della mattina e rimasi abbagliata dalla targhetta d'oro che avevo fatto mettere a fianco della porta. Il sole si rispecchiava nelle lettere: Nedra Seaberg - Atelier. Non vedevo l'ora che la pioggia e il vento la dipingessero come avevano fatto per i mattoni della casa. Portai dentro le scatole una alla volta, salendo le scale verso il difetto che rendeva quest'ultima villetta a schiera sulla sinistra la mia dimora perfetta: l'intero piano superiore e la mansarda erano un'unica stanza dal soffitto alto ma spiovente, come una grotta scavata dall'acqua. Quando recuperai l'ultima scatola scoprii che i barattoli di colori che conteneva si erano aperti e mescolati fra di loro: lasciai una scia di grosse gocce di blu diversi lungo tutte le scale.  

Mi fermai sulla soglia della grande stanza ad osservare per bene le ruvidi travi che sostenevano il nuovo tetto sulla mia testa e alcuni ragni rifugiarsi disturbati negli angoli più bui. Abbassai lo sguardo quando sentii i colori sgocciolare dall’angolo della scatola che avevo in mano sui miei piedi. Risi muovendo gli alluci e poi scattai verso i grandi cartoni appoggiati al muro opposto lasciando impronte turchesi, ciane e acquamarina sul legno del pavimento. Liberai una tela con foga, cadde a terra con un tonfo e io la seguii accovacciandomi al suo fianco. Aprii la scatola dei colori e vi ci infilai le mani fino ai polsi, godendomi la sensazione fredda e bagnata, poi feci il mio lavoro: dipinsi. 

Una volta finita la mia prima tela nell’atelier di Nedra Seaberg mi sedetti affamata sul divanetto blu ceruleo che mi era stato lasciato dai proprietari precedenti e mi ricordai del negozietto all’angolo della via parallela. Con abiti macchiati e capelli che erano quasi più blu che neri a forza di scostarmeli dagli occhi con dita piene di colore, uscii di casa fra i petali dei fiori dei biancospini spostati dal vento di primavera. Risi; non c’era motivo di cercare di nascondere la mia professione, la targhetta all’entrata strillava “atelier” a lettere dorate. Entrai nel piccolo negozio alimentare e presi quanto potevo portare nelle mie mani. Alla cassa il proprietario allungò la mano quando gli dissi che ero nuova nel vicinato, poi la ritirò quando vide le mie dita macchiate di colore. Scrollai le spalle: “Faccio l’artista” dissi e poi mi ricordai di aggiungere “sono Nedra.” L’uomo baffuto, con il cranio scuro e pelato come una cipolla annuì e sorrise un pochino. “Rory, piacere” si presentò, poi guardò i petali bianchi danzare fuori dalla sua vetrina e commentò serio: “Bella giornata”. Non potevo essere più d’accordo. “Eccezionale” dissi. 

A casa trovai una ciotola in uno dei cartoni, la riempii di mele e l’appoggiai sul tavolo traballante nella stanza di sopra, poi mi sedetti sulle scale a mangiare un sandwich. 

Tornai alla mia tela la sera, quando il primo strato di pittura era ormai quasi asciutto e i blu si mescolavano con le ombre della stanza come onde con il nero della notte. Avevo atteso bramosamente l’arrivo del buio e ora scattai da un lato all’altro della stanza sulle punte dei piedi, non paziente abbastanza per appoggiare la pianta intera, accendendo una ad una le varie lampade che avevo posizionato durante il giorno. Mi fermavo solo un attimo prima di spingere il prossimo interruttore, osservando i colori del mio dipinto trasformarsi ad ogni nuova tonalità di luce: ero allo stesso tempo sole, luna e stelle sopra il mare. Risi, piruettai pazza come una bambina in spiaggia e mi avvicinai finalmente alle mie onde sulla tela, pronta a bagnarmi nuovamente le mani nei colori. 

Vibrò il mio telefono e scosse tutto il tavolo traballante con le mie mele. Luce bianca, luce finta. 

“Ha funzionato tutto come organizzato?” 

Il messaggio mi abbagliò prima che le parole divennero sfuocate e si persero tra le ombre e i bagliori della stanza. Mi spezzai un unghia cercando di sbloccare il cassettino SIM del mio cellulare, poi mi tolsi un orecchino e finalmente riuscii ad aprirlo. Scesi di sotto e frugai in tre cartoni prima di trovare ciò che cercavo. Infilai la nuova SIM e buttai la vecchia nella ciotola delle mele; scivolò sul fondo. 

Mi accovacciai a gambe incrociate davanti al mio dipinto e premetti il telefono al mio orecchio. 

“Pronto?”

“Buona sera, signor Bhandari, mi chiamo Nedra Seaberg. Vorrei esporre le mie opere al suo festival di artisti emergenti in maggio.”

“Va bene, mi invii qualche foto della sua arte. Le saprò dire se fa per noi.”

“Va bene, grazie.”


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