La filatrice
Mi sono persa così tante
volte,
la via non è mai stata chiara
per me.
Non imparai mai tutti gli
intrecci della mia casa,
le infinite svolte di ogni
lungo corridoio.
Già da bambina sparivo,
svanivo
dal palazzo senza mai
lasciarlo, mi perdevo
fra i colori delle mille
stanze vagavo sola
e guardando gli affreschi
dimenticavo
se fosse notte o giorno; la
realtà fuori lontana.
L’eterna eco delle onde e le
risa dei miei fratelli
non mi raggiungevano nel
silenzio dei corridoi.
Ero pittrice della quiete con
i miei pensieri:
annusavo un mare dal profumo
diverso,
assaporavo un’aria dolce,
priva di sale,
non sparivo nei corridoi, ma
fra foreste di conifere.
Dubitavo di quanto fossi
libera
fin da bambina, ero però
padrona del labirinto;
finché il silenzio dei
corridoi svanì.
Un giorno, o una notte, mi
raggiunsero
le urla di Minosse, il pianto
di mia madre,
il lamento furioso di una
creatura: Asterione.
Mio fratello minore, il toro,
il bambino, la bestia,
mi privò dell’infinito dei
corridoi e del mondo;
il labirinto nella casa
divenne la casa nel labirinto.
C’era sempre rumore, rumore
costante:
zoccoli irregolari su
pavimento marmoreo
onde onde e vento onde su
sabbia e rocce
rantoli e boati indefiniti
inghiottiscono
ogni bisbiglio bisbiglio
passato fra servi
i gridi disperati e le urla
annuali
insieme ad ogni pensiero
giorno o notte.
Giorno o notte stavo stesa
immobile,
impotente: una statua di
marmo rovesciata
incapace di tornare in piedi
da sola.
Le mie gambe non avevano
posti a cui andare,
la mia mente non aveva nulla
a cui pensare.
Le giornate mi colavano
addosso
come acqua su pietra:
pietra immobile, acqua
inarrestabile,
cosa mai avrei potuto
cambiare?
Il tempo mi corrose da
bambina a donna,
il mio mondo immobile
minuscolo
soffocante, si strinse
intorno a me:
il mio letto divenne troppo
corto
per contenermi, dovettero
alzarmi.
Divenni una cariatide ai
piedi di Minosse:
bella, eternamente immobile
allo sguardo di tutti
nelle orecchie avevano
l’incessante scalpitare
del Minotauro, signore e
terrore del Labirinto.
Non sognavo più terre lontane
oltre il mare,
sarei affogata fra le onde:
le statue affondano.
Asterione inghiottiva ogni
anno quattordici vite
e un pezzo del mondo che
vorticava intorno a me,
ero immobile e avevo il capogiro,
incapace di fermare, cambiare
nulla.
Giorno e notte, giorno e
notte, mescolati
come una acqua e fango in una
pozzanghera,
statua di giorno, statua di
notte,
statua che affonda fra le
onde,
quando Morfeo rendeva le mie
mani marmoree.
Mi svegliavo annaspando,
petto ancora di pietra,
immobile attendevo finché non
arrivassero
a portarmi ai piedi del trono
di Minosse.
Cariatide dritta e dura, non
potevo fare un passo
né verso né lontano dalle
vele nere in arrivo,
né scappare nel né scacciarli
dal labirinto.
Persa senza aver mai fatto un
passo,
in trappola sull’isola, nel labirinto, in me stessa
sentii un bruciore nel mio
petto di pietra,
come punta da un’ape arrivata
con le vele nere
un irriconoscibile, straniero,
odore di sale,
acqua di mare corrose la mia
marmorea persona.
Teseo smosse (qualcosa in)
me, persi
stabilità fu lavata via dal
mio corpo
come onde sbranano
inscalfibili pietre,
vacillai, cuore morbido e
pulsante,
rimanendo ferma a fatica nella
mia forma,
novità malleabile e
indefinita.
Volevo correre, sparire,
negli infiniti corridoi
volevo piangere per
l'impossibilità del mio desiderio,
volevo gridare al giovane,
sciocco, Teseo
che la creatura avrebbe
sbranato lui e tutti gli altri,
non sarebbe rimasto nessuno a
cantare
la sua gloria indistinguibile
polvere fra frantumi d’ossa.
Durante i giochi tremai fra
le risa altrui, mani irrequiete,
osservando il principe
cecrope, mani ferme,
non un movimento di troppo
con la lancia,
occhi sul premio, occhi su di
me.
Distolsi lo sguardo,
tremante, furente
tornai alle mie stanze
familiarmente asfissianti
e sperai di soffocare anch’io
un poco,
che l’aria sottile mi facesse
dimenticare
l’inamovibile Teseo, lo
straniero odore di mare.
Piansi lacrime salate di
rabbia e invidia
per l’eroe che liberamente
aveva scelto una trappola,
per me stessa, mai libera di
scegliere la fuga.
Mani irrequiete, mani vuote,
mani impotenti,
mani nei capelli allontanate
dal tocco di un’ancella
con le sue due sorelle venute
a guidarmi
al banchetto dovrò tornare
perfetta cariatide.
Una sorella mi asciugò le
lacrime, la seconda mi vestì,
la terza mi mise in mano un
gomitolo di lana rossa
“da tessere in momenti di
disperazione.”
Non ero mai stata abile a
filare o lavorare la stoffa
nella mia esistenza con
pesanti mani di marmo;
strinsi ora però forte il
filo fra le mie dita,
cercando conforto nella sua
ruvidezza,
nei nodi nascondendolo
tremante sotto il chitone.
Alzai lo sguardo sulle tre
sorelle, pronta
per farmi guidare al
banchetto dalle ancelle,
ma mi ero forse persa nel
folto gomitolo
ed ero stata lasciata sola
con il mio filo rosso.
Mi avviai per la prima volta
dopo tanto tempo
senza guida negli infiniti
corridoi della mia casa,
mi persi una, due volte,
persa la familiarità
con il labirinto che avevo
avuto da bambina.
Sentii i pavimenti tremare
sotto i miei piedi,
sotto gli incessanti zoccoli
del Minotauro,
prima vergogna e poi potere
di Minosse,
Asterione, mio fratello,
prima che respirasse
l’aria di questo mondo e il
ferroso odore di sangue.
Trovai la via, infine, e
giunsi al banchetto;
la creatura era il terrore
del labirinto di Creta,
ma prima ero stata io la
signora dei miei mondi
fra i corridoi del palazzo di
Cnosso
ero cresciuta non in furore,
ma in gioia.
La breve felicità dei miei
ricordi svanì nell’ira
alle risa di Teseo tramando
vittoria al fianco di Minosse,
mentre tredici vite tremavano
di terrore
ad ogni tremendo tremore dei
pavimenti.
Fui tentata a tenere il
gomitolo nascosto,
conservarlo gelosamente nelle
mie stanze,
finché la polvere ed il tempo
avessero ricoperto
il colore rosso della lana e
la memoria di tale.
Ma la mia rabbia era inutile
quanto il gomitolo
era necessario solo a Teseo
nel labirinto,
io avevo bisogno di guide
solo per nuovi mari.
Fermai il principe al buio
per non vedere il suo sorriso:
il mio filo rosso per un
passaggio sulla nave.
Tollerai le sue labbra sulle
mie per respirare
il profumo di un mare diverso
sulla sua pelle.
Passai una notte insonne
pregando
Morfeo, che venisse a
rendermi pesante,
marmorea ancora una volta,
poi non più.
Poi i pavimenti cessarono di
tremare
e tremai al loro posto fra
singhiozzi;
impietrii quando fu il
momento di muovermi,
nessuno mi aveva mai
insegnato a scappare.
Giunsi alla spiaggia
inciampando,
pesante, cariatide ancora per
metà,
caddi quando mi raggiunse
l’odore
non mare, ma di sangue umano,
di bestia:
Asterione finalmente libero
dal labirinto,
il labirinto, la casa, libera
dal Minotauro.
Piansi gli irriconoscibili
resti di mio fratello
sulla spiaggia trionfai sul
terrore del mostro.
Teseo mi baciò, mi prese la
mano,
nell’altra mise il gomitolo
di lana rossa
di sangue fradicia ora,
colorando il mio palmo.
Non trovai sonno a bordo
della nave
sempre vigile, sull’orlo
della paura
al pensiero delle onde e del
mio corpo:
bella cariatide cretese,
semplice da affondare in mare.
Esausta pregai Morfeo per un
sonno profondo
a Nasso mi svegliai sollevata
nel letto
fresco e vuoto al mio fianco,
improvvisamente
fresca e vuota anche la
sabbia sulla riva.
Nessuno al mio fianco e
nessuna nave in vista;
l’angoscia salì lungo la mia
schiena,
io salii le rocce lungo la
scogliera.
In trappola sull’isola, in me
stessa
non trovai voce abbastanza
per spargerla
sulle onde, verso la nave di
Teseo.
Trovai fra le mie dita il
gomitolo,
lana rossa datami della tre
sorelle,
lasciata indietro nelle mie
mani dall’eroe.
Il filo era suo, lo lasciai
cadere in mare
verso la sua nave delle vele
nere.
Quante cose ti sei
dimenticato, Teseo,
le vele bianche promesse a
tuo padre,
il tuo filo fradicio di
sangue nelle mie mani;
prega Mnemosine che nessuno
si ricordi
tutto ciò che ti sei
dimenticato
quando canteranno la tua
storia.
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