La tessitrice


La mia esistenza è stata a lungo una storia di disfacimento. 

Ho sbagliato qualcosa nel tessere la tela della mia vita 

con il lungo filo fornitomi dalle Moire. 

Sono cresciuta tessitrice disciplinata alla corte di Sparta, 

finché non conclusi la tela della mia persona

e la fermai con un nodo in matrimonio con Odisseo.

Forse il mio lavoro non era abbastanza resistente,

il filo non sufficientemente intrecciato per le taglienti rocce d’Itaca.

Giunta alla mia nuova casa, il nodo cominciò a disfarsi 

e non c’era fine, il filo continuava sciogliersi, sciogliersi,

e mi pareva di correre, correre, incessantemente, senza sosta

dietro a quello spago nel tentativo di raccoglierlo in tempo,

prima che ritessere la tela divenisse impossibile.

Ma esso mi scivolava fra le dita e scorreva, scorreva,

come l’acqua di un fiume in piena: inarrestabile.

Prima che iniziassi a usare la parola “casa” per Itaca,

Odisseo rimase intrappolato in quei fili sparsi e disordinati;

in un campo salato combatté per liberarsi, 

ma fu infine strattonato verso la lontana Troia

e la tela della mia esistenza si disfaceva sempre più in fretta.

Sognavo la notte e il filo rosso delle Moire correva, correva,

e vedevo Odisseo inciamparvi dinanzi ad Ilio,

il rosso dello spago mescolarsi al suo sangue;

e vedevo lo stesso filo troppo tardi sui gradini della reggia,

prima di cadere ai piedi dei Proci, dove mi volevano;

e vedevo mio figlio tornato infante nella sua culla,

mentre piangeva e il filo rosso lo soffocava.

I primi anni di solitudine a Itaca li trascorsi

tra corse senza meta, che mi  lasciavano senza fiato,

a guardare la mia esistenza che si sfasciava.

La corte si svuotava di viveri e si riempiva di Proci,

Telemaco perdeva un po’ di se stesso e suo padre ogni giorno,

ed io mi ero stancata di rincorrere il filo, finché decisi

che, come ero stata una tessitrice disciplinata,

sarei stata altrettanto efficiente a disfare la tela.

E il filo continuava a scorrere, scorrere,

ma disfacevo gli intrecci con le mie mani,

ed ero vicina a me stessa come non già da tanto.

Non stringevo più bene i nodi quando tessevo di giorno,

di notte li trovavo semplici da sciogliere al buio.

Tre anni passarono in un giorno e una notte,

ripetuti e ripetuti, tessendo e disfacendo,

ingannando le Moire, Chronos, i Proci e me stessa.

Ero così ossessionata dal fermare il tempo per un po’,

dall’arrestare il disfacimento che mi circondava;

avrei continuato in eterno senza percepire fatica,

ma le notti erano ormai luminose di fiaccole dei Proci

e il buio non era più buio abbastanza per segreti.

L’ancella che mi espose ai miei corteggiatori mi temette,

e tenne lo sguardo ancora più basso quando non mi arrabbiai.

Non arrivò mai veramente l’ira, ma angoscia:

gli inganni sono i mezzi dei disperati, non dei saggi,

e sapevo che il mio trucco era durato troppo a lungo.

Fui quindi forzata a completare quella tela.

La finii disordinatamente, con intrecci irregolari,

ma gli occhi avidi dei Proci non notarono

la mia inabilità di trasformare filo in tela;

troppo ossessionati dallo stringere un nodo diverso.

La corte di Itaca tornò a disfarsi, più veloce che mai;

i chitoni mi si sfilacciavano fra le mani

e rimanevo nuda, nella mia mente, dinanzi ai Proci.

Sognavo che Odisseo mi coprisse dai loro sguardi

con un abbraccio quasi dimenticato.

Mi mancò come aria in quegli anni,

quando sentivo il rosso filo delle Moire stringersi

e stringersi intorno alla mia gola;

ansimando portavo le mani al collo,

ma subito lo spago mi scivolava fra le dita,

ed ero troppo esausta per rincorrerlo ormai.

Odisseo mi mancò come un ricordo lontano:

desideravo il prima forse più che il dopo,

desideravo tornare a quel lasso di tempo felice

dopo il matrimonio e prima dell’inganno nel campo;

temevo ciò che le Moire avevano in serbo,

prima che Odisseo finalmente tornasse,

 e se, dopo che fosse finalmente tornato.

Vedevo la corte, i muri, gli oggetti fatti di filo,

filo, filo, disfatto ovunque mettessi gli occhi.

Poi Telemaco se ne andò e temetti

che anche lui, come suo padre, fosse rimasto impigliato,

trascinato lontano da quel filo rosso 

che rendeva la nostra casa un groviglio. 

Tornò invece senza fama, ma con un vecchio;

lo accettai a corte perché mi assomigliava,

lui sporco negli stracci da mendicante,

io seminuda nei miei ricchi abiti sfilacciati.

Sedetti con lui dinanzi le fiamme danzanti del fuoco,

dove luci e ombre deformavano i nostri visi.

Le sue parole si intrecciarono con i mille fili,

infine gli posi la mia tortuosa domanda: Odisseo?

Il vecchio raccontò di averlo conosciuto, prima

e volli sapere se condivevamo lo stesso ricordo

di mio marito quando la tela non era disfatta,

quando i chitoni non mi si sfilacciavano fra le mani.

Le stesse mani avevano piegato la sua tunica e il mantello;

chiesi al mendicante cosa indossasse Odisseo,

sapevo ormai riconoscere il mondo come di stoffa e filo.

Piansi quando scoprii di condividere con il vecchio 

la stessa memoria lontana, sentivo la stoffa familiare,

sotto le mie dita il mantello porpora dell’addio.

Sognai l’arco quella notte, filo rosso al posto della corda;

l’idea entrò come un bisbiglio nella mente,

giunto da labbra taglienti dietro occhi grigi.

Assaporai la mattina in uno stato di rassegnato sollievo:

era compito della dea ora districare i fili al mio posto.

Feci come mi era stato bisbigliato nel sonno,

cercai l’arco e tesi leggermente la corda sotto le mie dita,

quasi percepii il tocco di Odisseo su quell’oggetto;

piansi e lo chiusi nella custodia, era l’ora dei Proci,

perché non lasciare che anche il vecchio tentasse?

Non mi fu permesso di assistere al mio disfacimento,

poiché l’arco è cura degli uomini, disse Telemaco;

ma ogni filo teso in questa casa è cura mia, pensai io.

Tornai al telaio non sfiorato da anni

pensando ai fili che avevo inutilmente intrecciato.

Sfiorai il legno, poi riposi le mani in grembo:

non c’era più nulla da tessere ora, solo da aspettare;

chiusi gli occhi sul letto vuoto, fra le lenzuola sfilacciate.

Fili anche nel sonno, fili dappertutto, ma familiari:

dormii tranquilla, esausta, nei miei mille nodi.

Nodi nei capelli, nodi nel cuore; Euriclea mi svegliò.

Feci fatica a districarmi dalle lenzuola, ancora

non volli conoscere cosa avesse deciso la dea, 

non volli sapere se si fosse presa gioco di me.

L’arco era stato teso da un’ombra sfuggita ad Ade.

Nessuno sfugge al Re dell’Oltretomba.

C'era puzza di stoffa bruciata quando scesi di sotto:

fili rossi dei Proci tagliati,  ammassati ed in fiamme.

Accanto al fuoco stava ancora il vecchio, curvo,

Odisseo non riconobbi nel volto seminascosto,

nelle vesti, nel tessuto, nei fili che conoscevo bene

piegandole venti anni fa già vedevo i fili delle Moire,

sapevo che mio marito mai sarebbe tornato in quelle vesti.

Osservai l'ombra di un ricordo davanti a me,

non avevo nulla da chiedere come Telemaco suggerì;

non volevo sapere di Nessuno, volevo Odisseo,

ma avevo perso ogni speranza del suo ritorno,

mi ero rassegnata ad una tela eternamente disfatta,

mai un nodo abbastanza forte da tenerla intatta.

Cercai di fare una passo avanti, incerta,

rimasi incastrata nel groviglio di fili, senza riuscire 

a liberarmi; osservai da lontano il viso del vecchio

e lui seppe di essere Nessuno ai miei occhi.

Occhi grigi osservarono la scena con pietà,

scambiarono il vecchio con un eroe tornato da Troia;

forse sarebbe stato il benvenuto dieci anni fa. 

Disperata mi dimenai nel mio groviglio che si strinse,

se lui si fosse avvicinato mi avrebbe potuto stringere

fra le sue braccia, forse saremmo soffocati entrambi; 

ma l’eroe rimase lontano, furioso, ferito.

Improvvisamente vidi il capo del filo rosso

fra i mille intrecci disfatti della mia tela:

la mia tela, la mia storia, non la sua Storia.

Allungai la mano e, incredibilmente, tenni lo  spago

stretto fra le mie dita, lo tirai leggermente:

l’uomo dinanzi a me barcollò in avanti 

mentre i grovigli intorno a si scioglievano.

Era giunta finalmente l’ora di tessere

una nuova tela con tutto questo filo.

Nessuno, sfuggito ad Ade, mi osservava

non vedeva lo spago nella mia mano,

ma lo percepiva forse, avrebbe voluto

implorarmi di tessere il nome di Odisseo

nella mia nuova tela, se lo avessi accettato.

La guerra è cura degli uomini, ma non necessitavo armi;

i discorsi sono cura degli uomini, ma bastava una parola:

con un “no” avrei lasciato l’eroe ad Ade, 

sicura di intrecciare poi i fili solidamente, con pace.

Ebbi pietà per l’ombra lontana di Odisseo,

gli proposi un’ultima prova, un ultimo inganno 

per lui e me, come venti anni non fossero passati.

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