La strega e la gatta

Quando arrivammo dormivo, o almeno fingevo di farlo: mi ero impegnata per tutto il tragitto a teneri gli occhi ostinatamente chiusi e avevo addirittura fatto cadere la testa di tanto in tanto; di certo non mi sarei arresa ora. Non volevo vederla, quella vecchia catapecchia, che i miei genitori insistevano a chiamare “la nostra nuova casina”. 

“Inga, siamo arrivati!” sussurrò papà in quel momento, arruffandomi i capelli nel tentativo di svegliarmi.

Non mi piaceva quando lo faceva, la chioma che avevo in testa era già abbastanza disordinata. Non mi mossi, reprimendo il desiderio di arricciare il naso, come facevo sempre quando ero davvero arrabbiata. Non c’era nulla di divertente: mamma e papà non si erano assolutamente preoccupati di chiedere se io fossi d’accordo con il trasloco. Ovviamente non lo ero. La mia protesta era seria.

Sentii gli sportelli della macchina aprirsi, ma continuai a far finta di dormire; fu lo sgradevole cigolio del portone a farmi coprire le orecchie di scatto e ad aprire gli occhi. Mamma si volse con un sorriso: “Ah, sei sveglia! Giusto in tempo per scaricare la tua valigia.”

Il mio piano iniziale, simulare un sonno profondo, era ormai fallito, ma non avevo nessuna intenzione di sospendere la protesta. Feci una pernacchia e schizzai dalla macchina.

“Inga, dove vai?” chiamò papà, ma io non mi girai indietro. Che si arrangiassero con la mia valigia!

Per un attimo pensai che sarei potuta tornare a casa in città da sola, poi però mi venne il fiatone e fui costretta a fermarmi in un angolo del giardino sul retro della stamberga. Mi sedetti su un grande sasso tondo all’ombra di una betulla. Avevo caldo e volevo stare sola. “Vattene” sentii all’improvviso. Mi girai e vidi una gatta tigrata completamente immobile alla mia sinistra, che sembrava volermi saltare addosso da un momento all’altro. Fui tentata di alzarmi e correre via, ma sapevo che la paura spinge gli animali ad attaccare, così rimasi dove ero ed incrociai braccia.

“Guarda che non mi fai paura!” dissi, facendo la lingua alla gatta.

Quella inclinò leggermente la testa e il nero delle sue pupille inghiottì quasi completamente il verde acceso dei suoi occhi.

“Vattene e non tornare” soffiò nuovamente. Io deglutii involontariamente, ma cercai di prendere coraggio mordendomi l’interno della guancia e dissi: “Vattene tu!”

A quel punto capii che non ero stata abbastanza brava a nascondere il mio timore. Feci appena in tempo ad alzarmi, che la gatta balzò verso di me; i suoi artigli raggiunsero il mio polpaccio, lasciandoci un lungo graffio. Corsi più veloce di prima verso il fronte della catapecchia, gatta furiosa al seguito, saltai sul sedile nel retro della macchina e chiusi la porta con un tonfo, cercando di riprendere fiato. Sobbalzai quando papà busso al finestrino.

“Inga, ma cosa fai lì dentro?” chiese perplesso.

“Andiamo via.”

“Ma come? Siamo appena arrivati alla nostra nuova casina!”

Arricciai il naso, poi vidi la gatta che mi aveva rincorso effettivamente fino alla macchina; la indicai.

“Parla.” tentai di spiegare, mentre un brivido mi scendeva lungo la schiena.

Papà alzò un sopracciglio e io strinsi gli occhi perché non mi piaceva quando non mi prendeva sul serio.

“Ha detto di andarcene e…” aprii lo sportello e indicai il mio polpaccio: “…mi ha graffiato!”

“Ah, Inga, lo sai che non bisogna dare fastidio ai gatti!” si intromise a quel punto mamma. Non aveva proprio capito niente!

“Ciao, micino” le fece eco papà. “Perdona la nostra Inga, a volte è una piccola streghetta”. Io le feci la lingua e la gatta mi fissò minacciosamente.

Girai la manopola per chiudere il finestrino, tirai su il cappuccio della mia felpa e mi concentrai a fare il broncio, quando mi venne un’idea. In fondo io e quella bestia tigrata avevamo lo stesso obiettivo: che noi tre ce ne andassimo da questa stamberga scricchiolante. I miei genitori dovevano solo capire che il micetto non ci avrebbe dato pace se fossimo rimasti, e visto che erano chiaramente troppo presi da quella ridicola idea di trasferirci, aprire loro gli occhi sarebbe stato compito mio.

Sgusciai dalla macchina il meno rumorosamente possibile e tornai nel giardino sul retro, mentre la gatta mi seguiva a distanza. Notai una vecchia tazza con il manico spezzato, la presi e continuai la ricerca dei cocci, che trovai in abbondanza nel vecchio capanno di legno pieno di ragnatele. Ora mi mancavano solo una pigna e uno spago. La prima la recuperai facilmente, ma non trovai una cordicina abbastanza lunga da nessuna parte; allora osservai le mie scarpe e decisi che erano l’unica possibilità, quindi tornai a sedermi sul grande sasso rotondo e iniziai a sfilare i lacci dalle mie Converse rosse; infine li legai l’uno all’altro e attaccai la pigna ad un estremo. Tutto era pronto.

Mi guardai intorno cercando di localizzare la gatta: era seminascosta nell’erba alta vicino al laghetto. Tirai l’estremo dei lacci con la pigna nella sua direzione e mi misi a correre. Tutto funzionò come pianificato e la belva si mise a rincorrere la pigna. Con un ghigno di vittoria puntai la veranda e la distesa di cocci pieni d’acqua; ancora qualche attimo e la gatta sarebbe stata fradicia e rea di aver creato un caos tale che non si sarebbe potuto ignorare. Sfrecciai lungo le tazze e i vasetti di marmellata e mi voltai indietro per controllare che tutto andasse come previsto. Con delusione mi resi conto che la bestia schivava elegantemente tutti gli ostacoli; improvvisamente persi una delle mie scarpe senza lacci, inciampai e caddi proprio sulla distesa di cocci con un tonfo e rumori di vetri rotti; nel giro di pochi secondi la veranda era piena di acqua e pezzi di bicchieri e tazze.

“Inga! Cos’è questa confusione?” gridò in quel momento mamma, aprendo la porta della veranda con un cigolio ancora peggiore di quello del portone principale.

Rossa in viso per la vergogna puntai un dito verso la gatta che stava elegantemente seduta su una sedia decrepita come se non fosse successo nulla.

“È stata lei!” la accusai.

 “Inga, mi fa piacere che tu stia facendo amicizia con il micio, ma guarda che disastro! Forza, aiutaci a pulire.”

Arricciai il naso: “È colpa sua! Combinerà solo disastri se restiamo qui!”

Mamma sbuffò: “Dai, vai a prendere la scopa dalla cucina e aiutaci.”

Mi venne un po’ da piangere: non era giusto! Corsi in casa e ringhiai: “Fate pulire alla gatta!”

Salii le scale di legno scricchiolanti e mi rifugiai in quello che non avrei mai chiamato “la mia camera”. Fissai la mia valigia e decisi che non valeva la pena disfarla: non avevo assolutamente intenzione di rimanere in quella catapecchia!

Per un po’ mi concentrai sulla mia rabbia, poi però lo sguardo cadde sull’angolo di un libricino che sbucava da sotto il letto. Allungai la mano e tirai fuori un volume impolverato dal titolo Fiabe e leggende locali. Aprii e iniziai a leggere.

C’era una volta una casa fra gli alberi. Era vecchia, ma nessuno sapeva esattamente quanto, solo che c’era già da tanto, tantissimo tempo. Nella casa abitava Agattha La Saggia, una donna né anziana né giovane, che alcuni pensavano fosse sempre stata lì nella casa. 

Si diceva che fosse una strega venuta dal bosco, nata fra le radici degli alberi, ma nel villaggio più vicino era benvoluta perché curava con le sue erbe raffreddori, febbri, dolori e qualunque altro genere di malattia. 

La sua fama crebbe finché un giorno addirittura la Regina le chiese aiuto, dato che il Re era stato gravemente ferito da un orso durante la caccia. Agattha rispose alla convocazione e curò con successo il Re, che le garantì eterna gratitudine e aiuto di qualsiasi tipo in futuro.

La fama della Saggia nella vecchia casa fra gli alberi era però arrivata anche alle orecchie di un’altra strega del Sud che invidiava le meravigliose abilità della sua collega.

Decise così andare a visitarla, sperando di rubare qualche segreto; Agattha però si rese ben presto conto delle intenzioni della strega venuta dal Sud e la mandò via. Non sapeva purtroppo che la speciale abilità della sua collega erano le trasformazioni e così si ritrovò nel corpo di una gatta.

Pensando alla promessa che le aveva fatto il Re, cercò aiuto a corte, ma si accorse che nessuno capiva cosa dicesse: tutti sentivano semplicemente dei miagolii. Agattha fu cacciata dal castello e, rassegnata, tornò alla sua vecchia casa.

La leggenda narra che solo un’altra strega sia in grado di capirla e rompere la maledizione. 

Quella notte non riuscii a dormire; il nuovo letto era scomodo e la coperta di lana che avevo sopra le lenzuola troppo ruvida. Aspettai di sentire mamma e papà andare a letto e poi, in punta di piedi, andai alla finestra e spalancai le ante. Una luna piena illuminava il giardino e si specchiava vanitosamente nel laghetto. La gatta era seduta sui gradini di legno della veranda.

“Ehi, come ti chiami?” chiamai bisbigliando.

Lei non si mosse, ma mi aveva sentito.

“Sono un gatto, stupida bambina, non ho bisogno di un nome” sibilò poi e io arricciai il naso.

“Beh, io sono Inga, e sarà meglio che te lo ricordi se vuoi il mio aiuto, Agattha” dissi; ero sul punto di chiudere la finestra quando udii la risposta: “Sono Agattha La Saggia, conosciuta in tutto il paese, vedi di usare un po’ di buone maniere, stupida streghetta.” 

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