La caminante

 Un caldo paralizzante era calato su Dormes riuscendo ad immobilizzare anche i rari pochi elementi dinamici della cittadina. Non che ci fosse mai stato un  particolare via vai in quel luogo, anzi, si viveva come animali a sangue freddo: in movimento solo se strettamente necessario, per procurarsi viveri o farsi scaldare da qualche raggio di sole. In ogni caso, con questa nuova ondata di cocente aria estiva, nemmeno i numerosi gatti che popolavano le strade ed i tetti osavano più uscire dall’ombra dei vicoli più stretti.

Quando mi sveglio quella prima mattina di caldo infernale mi chiedo sbuffando come abbia fatto a sopportare estati del genere durante tutta la mia infanzia; il sole non si è ancora alzato da dietro la torre sulle colline, ma stare nel letto senza sentirsi in una sauna non è già più possibile. Allo stesso tempo, però, ricordandomi di tutte le volte che mi ero svegliata sudata fradicia in mezzo alla notte, sento nella pancia la piacevole sensazione di essere a casa. Quando si sta per un po’ lontani dal luogo nel quale si è cresciuti è bello ritrovare le cose come le si sono lasciate, anche quelle che ci hanno sempre dato fastidio.

Scendo di sotto per fare colazione. È presto, ma so che mamà è già sveglia. Si alza all’alba per fare il bucato bianco; insiste per farlo a mano nonostante ci sia una lavatrice perfettamente funzionante in casa. Secondo la sua inviolabile opinione lavare la biancheria alla vecchia maniera e poi farla asciugare al sole è l’unico modo per evitare che si macchi. In realtà, da quel che so, non ha mai provato ad infilare quei panni bianchi nella lavatrice per testare la sua ipotesi, ma anche solo proporle di cambiare le sue abitudini sarebbe assolutamente inutile.

Mamà mi porge un piatto con due fette di pane e pomodoro e poi mi passa la lista della spesa proprio come faceva quando ero una ragazzina, prima che me ne andassi in città per studiare.

“Quando vai a prendere le verdure da quello sbadato di Hernandes digli di darti delle cipolle fresche questa volta, quelle che mi ha dato la scorsa settimana erano tutte germogliate” mi intima omettendo il “buongiorno”.

“Ah e poi passa dalla signora Rufina e chiedile come va la sua anca, visto che io oggi non riuscirò a farle visita. Se non ti riconosce e cerca di cacciarti di casa perché ti prende per una venditrice ambulante ricordale chi sei; negli ultimi tempi la demenza è peggiorata.”

Mando giù l’ultimo boccone di pane e pomodoro, prendo il cesto per la spesa che ormai da almeno venti anni sta sotto l’attaccapanni, do un bacio a mia madre, e quando sto per uscire di casa lei mi chiede un altro favore.

“Fai un salto dai Santos prima di pranzo, sai quanto ci tengono a vederti quando vieni qui!”

Le prometto di farlo e poi mi butto a capofitto nelle strade deserte e piene di sole. Cammino piano per due motivi: innanzitutto muoversi più velocemente sarebbe assolutamente impossibile senza surriscaldarsi, e poi mi piace lasciarmi un po’ di tempo per osservare casa per casa, riconoscere crepa per crepa e vicolo per vicolo.

Potrebbero essere passati cento anni di solitudine su Dormes, eppure sembra che tutto sia rimasto come lo era un secolo, un decennio, un anno, un mese fa. La cittadina pare un fossile conservato straordinariamente bene. Proprio come sempre i giovani si lamentano della lentissima modernizzazione e di avere una cattiva connessione ad internet e gli anziani rimpiangono i “vecchi tempi” incolpando il cambiamento e la globalizzazione senza sapere bene di cosa stanno effettivamente parlando. 

Rallento ancora di più il passo e cerco di costeggiare il bordo della strada dove le case proiettano un po’ di ombra, non tira un filo d’aria. Quando giungo alla piazzetta non c’è più modo di evitare il sole e così mi arrendo al caldo per raggiungere il negozietto di Hernandes. Il fruttivendolo è l’unico ad essere ancora aperto. Nel mio caso rappresenta il solo negozio che io abbia mai visto nella piazzetta, ma i vecchi raccontano di un certo “allora” quando di contadini, artigiani e venditori che offrivano la loro merce ce ne erano almeno dieci, secondo alcuni, o venti, secondo altri.

Hernandes dorme con la testa reclinata all’indietro e nascosta da un cappello; la sua è di fatto la miglior strategia per sopportare il sole estivo. Quando lo sveglio schiarendomi la gola il suo collo scricchiola come gli ingranaggi di una macchina. 

“La piccola Pilar!” mi saluta anche se sono sempre stata quasi esageratamente alta e lo supero nettamente di una testa. É contento di vedermi come sempre e come sempre mi racconta di come sia andata la raccolta quest’anno: molti pomodori, ma i cetrioli sono stati aggrediti dalle lumache durante un periodo umido in primavera. 

Hernandes sorride calorosamente mentre parla e si impegna particolarmente a scegliere un melone dolce e succulento da vendermi picchiettando su ogni frutto. Per non sembrare scortese non gli dico nulla delle cipolle e gli indico semplicemente quali vorrei avere evitando quelle germogliate. Poi, quando lo saluto, il contadino mi chiede come ormai da anni se a fine estate intendo tornare in città ed inspira fra i denti alzando sorpreso le folte sopracciglia quando gli rispondo di sì.

“Coraggiosa, coraggiosa la nostra piccola Pilar!” decide, come se non fosse già il quinto anno di fila che studio alla stessa università.    

Sulla strada verso la casa della signora Rufina passo di fianco al vecchio cartellone del circo. Mi ricordo ancora bene lagitazione che avevo provato quando un giorno, uscendo da scuola, avevo trovato quel colorato poster ad annunciare limminente arrivo di pagliacci, acrobati e giocolieri. Il Wiener Zirkus non era poi mai arrivato veramente, una settimana dopo tutte le date degli spettacoli erano state cancellate con un indelebile nero, lasciando lallora veramente piccola Pilar di sette anni con il cuore spezzato. Non era mai venuto nessun circo a Dormes.

Quando arrivo da Rufina appoggio il cesto della spesa allombra del portico e mentre busso, per evitare di essere cacciata via in malo modo, mi annuncio subito come "Pilar la figlia di Hilario e Justina”. Da dentro si sente una sedia stridere sul pavimento e poi un susseguirsi di tre battiti che si avvicinano, due di ciabatte sulle piastrelle ed uno di un bastone. 

Lanziana signora mi offre un largo sorriso sdentato; le rughe del suo viso fanno concorrenza a quelle del legno della porta.

“Ah, ragazza mia, non cera bisogno che tu sprecassi il tuo tempo per passare qui da me. Sarò anche vecchia, ma me la cavo benissimo da sola!” gracchia in finto tono scocciato Rufina, ma mi tira comunque in casa. Si lascia sprofondare con un sospiro affaticato su una sedia di vimini e bacchetta con il bastone uno sgabello al suo fianco invitandomi a sedermi. 

“Gli studi?” mi chiede, domanda base ai giovani di qualunque anziano che si rispetti. Mi lascia appena il tempo di risponderle con un “bene” e poi, compiuto il suo dovere, si sfoga in una lunga ed articolata lamentela riguardo la sua povera anca che ormai non le lascia più un attimo di sollievo. Cerca di spiegarmi il dolore che prova con strane metafore che trovo difficili da seguire e sospira scuotendo la testa. Io mi guardo bene dallinterromperla ed annuisco di tanto in tanto per assicurarle di star seguendo ed una volta che lei ha finito le chiedo perché non si faccia operare. La signora Rufina alza le mani al cielo.

“Eh magari! Magari!” grida quasi, poi mi prende il polso e si mette nuovamente a scuotere la testa.

“Ma dove? Il nostro povero dottore qui a Dormes non è mica un chirurgo!” mi spiega come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

“Ma signora Rufina, l’ospedale di Santa Cristina è a soli 5 chilometri da qui! Potrei portarla con la macchina” le dico sorridendo, ma all’anziana donna l'idea non pare piacere, scuote la testa ancora più decisa di prima.

“No, no, no, no, no” bisbiglia rapida, poi mi guarda quasi con sospetto da sotto le sue ciglia bianche.

“Ormai sono vecchia, non mi piace andare via di casa. Sono più tranquilla a ripercorre gli stessi passi tutti i giorni, anche se sempre più lentamente” mi dice alzando un dito nodoso. Apro bocca per cercare nuovamente di convincerla e spiegarle che 5 chilometri sono davvero una distanza ridicola, ma Rufina mi zittisce.

“Pilar, Pilar, da Dormes non me ne vado!”

Esco da casa sua giusto in tempo prima che l'inarrestabile sole divori il mio cesto e questa volta, nonostante il caldo, affretto il passo. Se voglio fare visita ai Santos ed essere a casa per l’ora di pranzo, prima che io faccia la fine di uno spiedo arrosto, mi devo dare una mossa. Sono abituata a camminare veloce, ma in città il rumore dei miei passi si confonde con quello di tutti gli altri passanti. Qui a Dormes, invece, il suono dei miei sandali sulla strada sembra rimbombare sulle pareti contribuendo a far cadere l’intonaco un po’ più in fretta. Sono l’unica passante e di tanto in tanto intravedo qualche sagoma che da dietro le tende tirate sbircia per qualche attimo chiedendosi chi sia quel pazzo che osa sfidare i raggi del sole a quell’ora del giorno. 

La cosa mi diverte abbastanza ed alcune volte alzo addirittura la mano a mo' di saluto. Sono sempre stata considerata un po’ stramba qui a Dormes, ma alla fine mi vogliono tutti un gran bene. Una volta ragazza di villaggio, sempre una ragazza di villaggio, eppure, una volta andata via da Dormes, sempre la “straniera” che fa ritorno.

Lisandro ed Isabel Santos sono amici stretti dei miei genitori e molto cari anche a me, da bambina andavo spesso da loro dopo la scuola per una merenda. Devo molto a loro, non solo per avermi rimpinzato per anni di deliziosi papajotes, ma soprattutto perché proprio a casa dei Santos ho scoperto la mia voglia di vedere il mondo. 

Entrambi i proprietari di casa sono appassionati di terre lontane ed esotiche, il loro salotto è pieno zeppo di guide turistiche delle varie capitali, riviste a tema viaggio e centinaia di cataloghi di varie agenzie di viaggio della zona.  Probabilmente se chiedessi ad Isabel di consigliarmi un buon ristorante nel quale cenare a Helsinki, lei saprebbe rispondermi con una lista di almeno una decina di locali. Eppure i Santos non se ne sono mai andati da Dormes, si limitano a viaggiare nei loro sogni, il che trovo abbastanza triste.

Ovviamente non riesco in alcun modo a scampare l’invito di rimanere a pranzo e così, qualche istante dopo, mi lascio trascinare in cucina da un delizioso profumo di gazpacho. Una volta seduta a tavola mi guardo intorno e rimango sorpresa di trovare ora anche la cucina quasi letteralmente sommersa di riviste di turismo. Sono sui mobili e sulle mensole, escono dai cassetti e ce n'è un mucchio sopra al vecchio televisore. Lisandro nota il mio sguardo incuriosito e mi porge tre giornaletti.

“Questi sono gli ultimi che abbiamo ricevuto. Il lunedì ci arriva quello del Periódico del Turismo, il mercoledì è il giorno del Preferente ed il venerdì ci spediscono il Hosteltur. In questi tempi moderni ci si può fare mandare tutto a casa, è fantastico! Guarda, questa settimana parlano del Kazakistan: rarissima meta, non si trova quasi mai nelle riviste, ma super interessante!” mi dice con occhi scintillanti, osservando l’ultimo numero del Preferente.

“E quand’è che andrete finalmente a visitare tutti questi meravigliosi posti? Ormai avrete letto di ogni singolo angolo del mondo, potreste fare le guide!” chiedo gustandomi il gazpacho.

Isabel ride e scuote la testa come se avessi appena fatto una proposta assurda.

“Ah Pilar, magari potessimo permettercelo! Viaggiare costa un occhio della testa e noi non siamo mica dei ricchi signorotti che possono sperperare soldi ovunque!” ridacchia e quasi come punizione per aver detto qualcosa di così improbabile, mi versa nel piatto un altro mestolo di zuppa fredda nonostante io tenti di farle capire di essere già più che sazia.

Mi sforzo di finire tutta la porzione ed intanto continuo ad osservare tutte quelle riviste pensando che la somma che i Santos spendono ogni mese per farsi spedire a casa tre riviste alla settimana basterebbe tranquillamente per pagare qualche viaggetto. Il fatto che Lisandro ed Isabel pensino di non avere i mezzi per realizzare i loro sogni mi rende triste e così, prima di tornare a casa, faccio un ultimo tentativo.

“Sapete cosa? Ad ottobre vado a trovare una mia amica dell’università in Francia, potreste accompagnarmi. Lei mi ospita a casa sua e sono sicura che troverebbe un posticino anche per voi, così facendo i costi non sono troppo alti, e poi a me farebbe molto piacere!” cerco di convincerli con entusiasmo. I Santos sorridono, ma un’ombra triste passa sui loro volti. 

“Forse… forse una volta partiremo anche noi per un’avventura, ma per ora tu goditi le tue, Pilar. Viaggia in lungo ed in largo… tu che puoi” mi dice Lisandro con una pacca sulla spalla, poi Isabel mi da un bacio e mi saluta.

Sono turbata quando mi metto sulla via del ritorno con il mio cesto della spesa. È calata su di me una strana inquietudine, simile a quella che si prova da bambini quando si è a casa da soli dopo aver guardato segretamente qualche thriller per adulti alla tv: si ha la sensazione di aver fatto qualcosa di strettamente proibito e di venire quindi puniti con qualche mostro o assassino psicopatico che salterà fuori da dietro l’angolo da un momento all’altro.  Non riesco però a spiegarmi perché mi pare di aver fatto qualcosa di vietato, raddrizzo quindi le spalle e mi scrollo di dosso quella ridicola sensazione.

Nel pomeriggio si alza finalmente una fresca brezza proveniente dal mare. Il vento è un fattore destabilizzante a Dormes: volano i panni, si alza la polvere e si disfano le pettinature. Gli abitanti del solitamente pigro e sonnolento  villaggetto sono obbligati a muoversi per rincorrere il bucato, la signora Rufina fa a lenti ed affaticati passi il giro della casa per chiudere porte e finestre che sbattono, i Santos appoggiano a mo’ di peso tazze e bicchieri sulle loro riviste le cui pagine svolazzano allegramente all’aria.

Io, desiderosa di innalzarmi verso l’alto come i capelli che vengono spazzati dal capo della persone,  vado alla vecchia torre di vedetta sulle colline. Lì mi lascio scompigliare i capelli dal vento ed osservo Dormes dall’alto: pare un caotico  formicaio ora e c’è una generale aria di fastidio. Finalmente un po’  di movimento, penso e mi diverto ad ascoltare gli schiamazzi e le maledizioni che i miei concittadini mandano alla brezza di mare. 

Spostando il mio sguardo oltre i confini del villaggio noto che l’agitazione sembra essere confinata a Dormes. Lungo le strade di campagna che portano in città continua la placida vita estiva.  In lontananza vedo passare un treno e circolano alcune moto,  furgoni ed automobili. Da Dormes però non ne esce o entra nemmeno una. 

Improvvisamente torna a salirmi lungo la schiena quello spiacevole senso di inquietudine. Pensandoci bene, la prima volta in cui io stessa ero andata oltre il cartello con scritto “Dormes” sbarrato in rosso, era stata quando, fresca patentata, avevo caricato le mie valigie nella macchinina di seconda mano che avevo ricevuto come regalo dai miei a fine scuola e me ne ero andata in città per studiare. In ogni caso, pochissimi abitanti hanno un’automobile, il villaggio è talmente piccolo che sarebbe ridicolo non muoversi a piedi. Realizzo che se uno volesse andarsene sarebbe abbastanza difficile: non c’è la stazione qui e non passano autobus. 

Il cancelletto all’entrata della torre si chiude bruscamente mosso dal vento facendomi sobbalzare. Da piccola a scuola i ragazzi più grandi ci raccontavano per farci paura che in questo luogo vivesse il fantasma di un prigioniero moro morto rinchiuso nelle strette mura della torre. Sorrido a quel ricordo e torno a guardare il villaggio. Sciocchezze. Eppure per qualche motivo mi immagino il povero moro giungere alla fine dei suoi giorni mezzo impazzito senza alcuna possibilità di scappare e nei suoi ultimi momenti lo sento maledire con voce debole e rabbiosa tutti gli abitanti del villaggio, rendendoli prigionieri in un luogo, proprio come lo era stato lui. 

Scuoto la testa quando mi rendo conto di star sognando ad occhi aperti, sono sempre stata una persona fin troppo fantasiosa. La verità, mi dico, è che Dormes è un vecchio ed arretrato paesino di campagna come tanti altri. Scendo le scale di pietra, apro il cancelletto che si lamenta cigolando, e torno a mescolarmi con il resto degli abitanti che guardano sconcertati i miei capelli scompigliati.

Verso sera torna la tranquillità; le uniche tracce lasciate dal vento sono alcune pagliuzze che i gatti si divertono a rincorrere ed  una polvere sottile che si aggiunge a quella che già copre tutti gli edifici. Io però rimango inquieta: durante la cena rovescio due volte l’acqua ed una volta a letto mi giro e rigiro quasi volessi annodarmi con le lenzuola. Mi sembra più caldo delle sere precedenti; sbuffando mi scopro una gamba sperando di stare più fresca, ma poi mi accorgo di alcune zanzare che puntano dritte al mio piede e quindi mi nascondo nuovamente sotto il lenzuolo. Con un sospiro rassegnato chiudo gli occhi e mi impongo di rilassarmi cercando finalmente di dormire. 

Zzzzzzmm  zzzzmm zzzmmm.

Una zanzara ronza vicino al mio orecchio destro. Alzo bruscamente una mano e mi copro metà della faccia con il lenzuolo, un attimo dopo la sento svolazzare intorno a quello sinistro. 

“Ti piacerebbe dormire eh?”  mi immagino che mi sussurri perfidamente. Scuoto la testa cercando di scacciarla, ma non c'è modo, con uno sbuffo disperato mi nascondo completamente sotto la coperta. Fa troppo caldo, ma sono talmente stanca che mi addormento senza farci veramente caso. 

Faccio degli strani sogni: delle zanzare giganti cercano di succhiarmi tutto il sangue dal corpo ed io non riesco a scappare perché un fantasma mi tiene stretto per le caviglie, così sono costretta a difendermi con dei pomodori a mò di proiettili  che Hernandes mi fornisce prontamente.

La mattina seguente apro gli occhi con la strana sensazione di essere stata in realtà già sveglia: sono esausta, il sonno mi è rimasto appiccicato addosso insieme al sudore. Penso di alzarmi per fare colazione ed uscire finchè fa ancora fresco, ma non faccio nessuno sforzo per alzarmi dal letto e finisco quindi per rimanere stesa ad osservare il soffitto lasciando che i miei pensieri scorrano senza che io me ne accorga veramente. 

Dopo dieci minuti, o forse mezz'ora, davvero non saprei dire, mi chiama la mia mamà  per la colazione.

“Arrivo!” rispondo, ma poi continuo a fissare il soffitto. 

Sono così concentrata a fissare la sottile crepa lungo la parete che non sento mia madre salire le scale e perciò sobbalzo quando la trovo a fianco del mio letto con uno sguardo preoccupato.

“Non ti senti bene?” mi chiede con la fronte corrugata come cartapesta. Io mi affretto a sgusciare fuori dal letto con un sonoro sbadiglio per il quale vengo immediatamente rimproverata con uno sguardo severo e mi stiracchio come un gatto che ha passato una giornata a dormire al sole impigrendosi.

“Sto bene mamà, ho solo dormito male stanotte" le assicuro e dopo avermi lanciato un'ultima occhiata inquisitoria sembra essere convinta anche lei che effettivamente non mi manca nulla.

Quando finalmente scendo di sotto il fresco del mattino è ormai stato inghiottito dal bruciante sole. Mangio lentamente, come se le mie braccia e mani si fossero improvvisamente trasformate in pesante marmo e quando mia madre mi porge la lista della spesa guardo svogliata il cesto sotto l'attaccapanni e scopro di non avere la minima voglia inoltrarmi a piedi fra le viuzze alla mercè del sole. 

Prometto di uscire più tardi e mi rifugio in salotto sulla poltrona. Vorrei andare avanti con il nuovo libro che ho comprato appositamente come lettura estiva, ma è di sopra nella mia stanza e mi scoccia fare nuovamente le scale, perciò mi rassegno a leggere uno dei tanti gialli scadenti che mio padre tiene nella libreria del salotto. 

Il libro è veramente terribile: spesso mi perdo e mi tocca rileggere le frasi da capo e dopo un po' rischio quasi di addormentarmi, cosa che non mi succede mai. Così tento di appoggiare il giallo sul tavolino a fianco della poltrona, ma non allungo abbastanza il braccio ed esso cade per terra con un tonfo. Sbuffo, ma fa troppo caldo per alzarsi e raccoglierlo. 

Lascio che il mio sguardo vaghi qua e là per la stanza ed alla fine mi cade sulla finestra. Non c'è nulla da vedere: le vie sono deserte, i raggi del sole sono abbaglianti ed i gatti si sono già tutti nascosti all'ombra. Poi un po' più in alto fra le colline intravedo la torre che troneggia su Dormes come un viandante solitario. Mi immagino il fantasma del moro che osserva il villaggio da qualche stretta fessura fra due mattonelle della torre ed improvvisamente sento un grande bisogno di muovermi; scatto in piedi e per la foga quasi inciampo, poi raccolgo il libro e lo ripongo con cura nella libreria. Cerco i miei genitori che sono  intenti a raccogliere il bucato e piegare le lenzuola nel retro ed annuncio con energia esagerata che sarei andata a fare la spesa al supermercato nel paese più vicino. La mia mamà non è particolarmente contenta: stando a lei le verdure comprate al supermercato hanno tutte lo stesso sapore. Mi invento di dover andare a prendere alcune cosa necessarie per l'università assolutamente  introvabili in paese e poi mi fiondo in casa per prendere borsa e portafoglio. 

Nelle ultime settimane non ho mai avuto bisogno di spostarmi da Dormes e così mi rendo conto di non avere la minima idea di dove ho lasciato le chiavi della macchina. Gli oggetti, se non usati frequentemente, soffrono del difetto di venire inghiottiti dalla casa, come se i muri e le stanze assimilassero pian piano materiale che li renda più stabili.  

Salgo in camera facendo i gradini due a due ed inizio la ricerca; svuoto borse, apro armadi e controllo sotto al letto, ma le chiavi sembrano introvabili e nel frattempo la mia stanza sembra essere stata travolta da un uragano. Corro nuovamente di sotto rischiando di cadere malamente sulle scale e vado a controllare di non aver chiuso le chiavi in macchina, ma non le trovo nemmeno lì. Sbuffo arrabbiata.

Non mi permetto girarmi dall’altra parte, ma sono perfettamente consapevole della torre di vedetta che si innalza sulle colline alle mie spalle e nel caldo silenzio mi sembra di sentire un ghigno lontano.  A quel punto mi volto di scatto: non mi lascerò prendere in giro da un fantasma inesistente.

“Ti diverti, eh?” sussurro alla torre, poi con le mani sui fianchi torno alla ricerca delle chiavi più convinta di prima. Solo una volta nuovamente in casa mi rendo conto di aver appena parlato ad alta voce con un essere soprannaturale frutto della mia immaginazione, con un sospiro mi sfrego la faccia con le mani e mi ripeto che non esiste nessuno spirito di moro prigioniero, né una maledizione che imprigiona tutti gli abitanti di Dormes. Qualche attimo dopo sto girando per le stanze pensando a dove un fantasma nasconderebbe le mie chiavi. Le trovo fra le conserve sottaceto di mio padre. Non mi chiedo nemmeno come siano finite lì, mi volto trionfante verso la torre fuori dalla finestra con un sorriso sornione.

Finalmente seduta nella mia macchinina sono un comandante che sfila vittorioso per le vie, voglio godermi la mia vittoria: così tiro giù i finestrini, accendo la radio al massimo e oso addirittura superare il limite dei 50 che vige in tutto il paesino. Dormes però è quieto intorno a me e pian piano il silenzio entra dai finestrini fino ad invadere l’automobile facendomi passare la voglia di musica. Torno ad avvolgermi nell'atmosfera statica e bollente del mio paesino natale, la torre di vedetta sulle colline è proprio davanti a me. Rallento, non ho mai superato i 70, eppure mi pare di aver commesso, sfrecciando così per il villaggio, un terribile atto di hybris nei confronti del fantasma del moro. 

Intravedo finalmente il cartello che simboleggia l’uscita da Dormes, ce l’ho quasi fatta, ma non riesco a sentirmi sollevata, anzi, per qualche motivo inizio ad avere il presentimento di non riuscire a sorpassare quel fatidico cartello con la sbarra rossa. Raddrizzo la schiena e stringo forte il volante dandomi della sciocca, non starò mica diventando come i Santos?

“Non esisti, non esisti, non esisti!” mi ripeto, mentalmente rivolgendomi al fantasma ed alla sua maledizione per autoconvincermi. 

Mi avvicino sempre di più al confine del paese, ormai mancano pochi metri, spingo il pedale del gas per lasciarmi finalmente Dormes alle spalle; il motore emette uno strano ronzio, come se stesse lentamente addormentando. E poi, a mezzo metro  dal cartello di uscita, la macchina si ferma.

Per alcuni lunghi secondi che mi scivolano addosso come ore non oso muovermi nemmeno io. Sento l’angoscia invadermi, ma la ingoio, prendo un respiro profondo e mi costringo a rimanere calma: mi è già successo di avere problemi con la mia automobile di seconda mano, quindi non c’è motivo di allarmarsi. Giro la chiave nella toppa, ma la macchina non dà segni di vita, nemmeno un debole sbuffo. Provo nuovamente con lo stesso risultato ed infine scendo ed apro il cofano per controllare che ci sia ancora abbastanza olio, sembra tutto in ordine. Mi pare di ricordare di aver fatto benzina prima di arrivare a Dormes, ma per darmi una spiegazione logica mi dico che probabilmente è finita e mi incammino verso casa: mio padre usa la benzina per il tosaerba e quindi ne ha sempre un po’ di scorta.

Sono ormai già abbastanza lontana dal centro del villaggio dove abitano i miei genitori, eppure il tragitto mi sembra molto più breve di quanto mi ricordassi, come se con ogni passo ne facessi due in una volta.

Papà è come sempre pronto ad aiutare e va subito a frugare nel garage dal quale esce alcuni attimi dopo con una tanica di benzina da 5 litri in mano come se fosse un trofeo. Camminiamo silenziosi come due soldati in missione  sotto al sole e questa volta non mi sembra di arrivare più. Controlliamo la benzina, ma in realtà ce n'è ancora a sufficienza; la macchina non sembra avere nessun vero problema. Indecisi sul dafarsi decidiamo di spingere la mia macchinina un po’ più indietro per non bloccare completamente la strada, ma, nonostante la mia piccola automobile sia leggera, non possiamo di certo spingerla fino a casa. Mio padre si gratta la testa perplesso. 

“Pilar, prova a risalire, magari abbiamo fortuna!” mi dice quindi scrollando le spalle. Non mi viene in mente un’idea migliore e quindi oso un altro tentativo. Convinta che non servirà a nulla infilo la chiave nella toppa senza nemmeno sedermi bene sul sedile. La macchina parte ed io sobbalzo al rumore del motore. Senza dire una parola gesticolo a papà di salire, lui si sistema al mio fianco tanto sorpreso quanto me, ci guardiamo come se avessimo appena visto un fantasma.

“Andiamo a fare spesa in villaggio, che ne dici?” borbotta mio padre, ed io mi limito ad annuire mentre fisso la torre nello specchietto retrovisore. 

Per il resto dell’estate la macchina rimane parcheggiata nel garage e la mia voglia di scappare viene cancellata dal sole come il mio colorito chiaro. Ho molto da studiare e perciò mi rimane poco tempo per passeggiate sulle colline o fantasticherie. Dormes rimane come sempre, l’unico cambiamento è rappresentato dall’apertura di una biblioteca di riviste da viaggio da parte dei Santos che non sanno più dove metterle. La cosa ha un grande successo e diventa subito molto frequentata. 

Quando l’autunno si annuncia con le prime giornate meno brucianti ed i gatti che pian piano escono dall’ombra dei vicoli più stretti faccio i bagagli per tornare in città a studiare. La mia macchina parte senza problemi, ma in realtà non avevo temuto diversamente. Mi rendo conto di non stare assolutamente scappando, proseguo semplicemente lungo la mia via, sicura che essa mi riporterà prima o poi qui a Dormes e così, quando raggiungo il cartello al limite del villaggio sorrido.

“Credo proprio che questa volta non ci saranno problemi” penso convinta ed effettivamente passo tranquillamente il confine del mio piccolo paesino natale.

Faccio un cenno alla torre: “Alla prossima!” rido. 


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